La rivoluzione non viaggia sugli algoritmi, ma sui grafici e sui bilanci aziendali. È una rivoluzione per noi consumatori, che ci scopriamo già quasi assuefatti a lillipuzianizzare la maestà del cinema sugli schermi e tra le mura di casa, in un trauma epocale digerito in silenzio. È invece un’ordinaria riconversione per chi il cinema lo fabbrica, e programma su scala industriale la fruizione a tariffa di immagini in movimento. Ne parliamo con Riccardo Tozzi, fondatore dell’italiana Cattleya, casa di produzione di film e serie tv (fra le altre Romanzo criminaleGomorra, Suburra, ZeroZeroZero e Summertime) che si è riposizionata in anticipo e massicciamente verso la produzione seriale. Un orizzonte di eventi che solo qualche anno fa sembrava distopia.

Un adepto delle sètte complottiste, in crescita esponenziale, potrebbe vederla così: il Covid lo hanno inventato i signori dello streaming per decretare la morte del cinema in sala.
Il Covid ha solo accelerato processi già in atto. Da anni osservo sui dati italiani un trend rilevante. Prima della pandemia, i numeri delle presenze in sala erano sostanzialmente stabili nel tempo, tra gli 80 e i 120 milioni di biglietti/anno. Non è un gran mercato, ma è così da 30-40 anni. Non è detto che superato il Covid non si ritorni a quei livelli quantitativi. Il dato rilevante è però il cambiamento della composizione del pubblico. Prima del grande sviluppo dell’home entertainment c’erano due pubblici nettamente distinti: quello cinematografico e quello televisivo. Chi andava al cinema non guardava le fiction, chi stava davanti alla televisione non andava al cinema. Facevi i film sapendo per chi li facevi, avevi un pubblico di riferimento relativamente stabile. Con lo sviluppo della pay-tv e l’avvento delle piattaforme, e quindi anche la nascita di un nuovo tipo di serialità, la barriera è caduta. C’è un pubblico generalista, interessato al racconto per immagini, che vede film e serie quando e dove vuole. Ci sono più persone che vanno al cinema, paradossalmente, ma con minore frequenza. Quando si raduna il pubblico generalista? Quando c’è un evento. Quindi: picchi per gli eventi, e numeri modesti per tutto il resto.

Ma non dipende anche da una produzione nostrana stritolata dalle commedie, che anche per piatta omologazione, tranne eccezioni, non incassano più?
Sì, perché tra i 200-250 film che produciamo ogni anno, quanti sono gli eventi? C’è un’intera cinematografia che non riesce a fare numeri significativi in sala.

Ma Freaks Out, ad esempio, per l’Italia non era un film-evento? E ha fatto solo 2 milioni e 600mila euro.
L’evento non è necessariamente il film migliore, ma quello che catalizza l’attenzione. I film americani in primis. Tra gli italiani, pochi. Ma bisogna imparare a capire che la sala non è più il luogo dove si giudica il risultato economico e reputazionale di un film, perché non esiste più un pubblico solo cinematografico, l’unicità della sala è venuta meno.

Da noi si fanno molti film, forse troppi, perché molti non arrivano in sala. Che fine fanno i film inutilmente prodotti?
Attenzione: quelli che arrivano in sala sono percentualmente molti, intorno ai 180-190. Anche perché da tempo in Italia si pagano le sale per uscire. Le sale le trovi, ma poi ci va pochissima gente. Quelli che non escono in sala, spesso si disperdono. Se prendessimo atto che la vita del film è su tutta la filiera, capiremmo che la distribuzione deve occuparsi anche di renderlo recuperabile su piattaforma o in televisione.

Una major come la Warner ha annunciato che nel 2022 dieci dei suoi film usciranno solo su piattaforma. È una scelta che da noi parecchi hanno già fatto nel 2021. Che percentuali prevede, in futuro?
Dipende dalle prassi di mercato che si fisseranno. Se resta un sistema di “finestre” molto rigido e lungo (le “finestre” sono il tempo fissato tra il passaggio in sala e quello su streaming, ndr) molti titoli sceglieranno di uscire solo su piattaforma. Se si troveranno soluzioni più flessibili, si può programmare un pre-passaggio in sala per tutti, magari breve.

Ma il trend delle majors Usa sta già contraendo all’estremo le famose “finestre”. Il “window deal” di Universal prevede 17 giorni per i titoli che totalizzano meno di 50 milioni di dollari nel primo weekend e 31 giorni per quelli che li superano. Questo significa che film come Sing 2, ad esempio, sono offerti su piattaforma mentre ancora sbigliettano in sala. È il futuro?
In Italia non è così. Per i film italiani che godono di benefici di legge la finestra da rispettare è di 90 giorni. Ma non ha senso usare lo stesso criterio per tutti i film: a quelli che prevedibilmente non hanno una lunga vita in sala bisogna dare il modo di valorizzarsi su piattaforma. La quasi totalità dei film italiani viene giudicata come se fosse andata male. Ma non sappiamo quanto pubblico abbia raggiunto il film, perché valutiamo solo l’effetto in sala. Così si perde di vista il destino intero del film.

Perché Cattleya ha scelto di riposizionarsi, in tempi non sospetti, in direzione della serialità? Paolo Sorrentino tra i grandi autori, voi come produttori, avete fatto da apripista.
Tra le ragioni c’era l’interesse per questo nuovo tipo di prodotto, anche sperimentale nei contenuti, che somigliava più al cinema che alla vecchia fiction. Appena Sky ha iniziato la produzione originale, abbiamo tentato questa strada con Romanzo criminale. La nostra linea è stata sempre quella di recuperare il “genere”. Abbiamo fatto grande cinema di genere negli anni Sessanta e Settanta, poi è stato gettato un po’ nella spazzatura. L’hanno riscoperto quando grandi autori internazionali l’hanno citato come modello. Abbiamo visto nella serialità un filone interessantissimo, estremamente creativo: quasi il linguaggio del mondo globalizzato, il romanzo del terzo millennio. E nel cinema già emergevano tendenze problematiche: è stato automatico concentrarci sulla serialità. Vogliamo continuare a fare qualche film, film però di qualità che raggiungano il pubblico. Non è facile. Dobbiamo farlo anche perché le nostre serie hanno una cifra cinematografica e si alimentano dai nostri film.

Nel 2021 abbiamo assistito a una riconversione a tappeto di produzioni e autori, anche maestri come Marco Bellocchio, verso le serie. È un fenomeno legato all’emergenza o sarà la strada maestra del futuro?
Tutti dovrebbero fare tutto, secondo me. La distinzione tra autore cinematografico e regista televisivo sta per cadere. La nuova serialità è un tertium, non è paragonabile alla fiction tradizionale, anche dal punto di vista del linguaggio. Ha una caratura di innovazione e ricerca che attrae registi, sceneggiatori e attori. Sono interessati, non costretti, a farla. È un mondo di espressione estremamente attraente, e ha proiezioni internazionali. Sappiamo tutti che dramma è esportare un film, farlo uscire in poche copie in altri paesi. Vai in piattaforma, sei uscito in 110 paesi, e ti hanno visto, ti scrivono. Esce ZeroZeroZero e perfino Stephen King twitta il suo apprezzamento. Quando ti succede? Niente impedisce agli stessi autori di tornare a fare un film, se lo desiderano.

Torniamo alla questione della difesa del cinema in sala. Con la legge del 2016 in Italia si è scelta per il tax credit la via degli automatismi, al posto del criterio selettivo, in base al principio per cui un’impresa che affronta il rischio di produrre e distribuire va comunque sostenuta dallo stato. Vale per qualunque opera audiovisiva, serie comprese. Con una legge fatta così, non sono chiacchiere vuote gli appelli per riportare il cinema in sala?
Ma il tax credit ha sì favorito la produzione di serie, però anche la quantità di opere prime (spesso interessanti) è aumentata. È aumentato il numero delle piccole società di produzione. Ha avuto un effetto quantitativo più sul cinema che sulla serialità, anche se guardando solo al riscontro in sala sembrano fondi dispersi. Noi spettatori cinefili oggi non andiamo più al cinema con la stessa frequenza, perché abbiamo un’offerta molto più vasta a casa. A Covid debellato, non credo che ci saranno problemi per le sale, ma per i film sì. In sala, solo in sala, non ci sono più le condizioni perché un numero significativo di film faccia un risultato significativo. La nuova distribuzione, soprattutto per i film italiani, va finalizzata a far uscire il film su tutta la filiera.

I colossi delle piattaforme però hanno capito che attraverso gli accordi coi produttori italiani, e la vostre rinunce in materia di diritti, possono produrre serie utilizzando molti nostri soldi pubblici.
Con piattaforme e televisioni valorizzazione dei diritti e uso del tax credit sono un punto di trattativa aperto, diciamo anche un braccio di ferro. Perché il tax credit non può essere un modo per far spendere meno i committenti stranieri, dovrebbe essere un beneficio per consentire all’industria italiana di crescere. Tutti vogliono tutto, si sa. Ha senso che un pezzetto del vantaggio lo abbiano loro, ma l’altro pezzo deve andare ai produttori italiani. Anche perché le case di produzione, a differenza di quanto avveniva prima, stanno investendo molto in lavoro, cioè in strutture aziendali, e in ricerca e sviluppo. Prima da noi non si sviluppava niente se non si aveva già un contratto con un distributore o una televisione.

Netflix è entrata nell’Anica, l’associazione dei produttori, pur in assenza di trasparenza sugli utili. Non era tassabile da noi perché non si conoscono i fatturati: nessun paletto.
Credo che questo sia cambiato recentemente, perché hanno creato la sede italiana, e adesso dovrebbero pagare le tasse.

Ma è vero che i pacchetti di maggioranza di molte società di produzione italiane sono passati in mano estera?
Sì. È un processo mondiale. Le grandi televisioni private, soprattutto, vedono il loro business in calo, audience e pubblicità si riducono. Tradizionalmente, da quando esiste l’industria dell’audiovisivo, il potere lo ha detenuto chi distribuiva. Con la globalizzazione, le pay tv, le piattaforme e la moltiplicazione dell’offerta, l’elemento chiave è diventato il prodotto. È una rivoluzione. Per la prima volta nella storia dell’audiovisivo, conta più il prodotto che chi lo distribuisce. I grandi gruppi – televisioni in specie – hanno creato studios, le proprie filiali cioè, con il compito di assicurarsi le fonti del prodotto. Il gruppo tedesco Fremantle ha comprato decine di società di produzione in Europa e in Italia. Con Wildside e Apartment, pare, sta trattando Lux. Gruppi francesi hanno comprato Palomar e Fabula. Un gruppo tedesco ha comprato Cross e Mompracem. Noi prima eravamo con Universal e adesso siamo con Itv Studios. Prima si diceva: “Money is in distribution”. Ora si dice: “Content is the king”. Anche le start up talentuose vengono comprate, c’è una corsa frenetica alle fonti del prodotto.

In Italia solo una piccola quota del tax credit viene riservata a progetti valutati per qualità e contenuti. In Francia il 50 per cento dei sostegni pubblici viene destinato in forma automatica e l’altro 50 per cento in forma selettiva. Gli automatismi di legge italiani premiano, per così dire, i potenti. Quando un produttore ha fatto un film (o serie, o documentario) che ha avuto successo al botteghino, il ministero gli ridà un’altra quota, che deve reinvestire in un altro progetto. Ogni 100mila euro incassati, la posizione contabile del produttore migliora. In sostanza, chi ha più forza e più soldi ottiene più soldi pubblici?

I fatti dicono il contrario, perché sono aumentati enormemente i piccoli film e i piccoli produttori. C’è un ma: per la serialità, si ha un’interlocuzione costante con la committenza (Rai o Netflix, con i suoi algoritmi), che ha il polso del suo pubblico. Si prende la mira con precisione. Fino a dieci anni fa era così anche per il cinema: ti confrontavi col distributore e con lui prendevi la mira sul famoso pubblico cinematografico, che allora esisteva. Ora che il pubblico si è confuso e disperso, manca la bussola, il punto di interlocuzione. C’è una produzione generica, per così dire. La qualità non è scesa, però manca la crescita. All’inizio del secolo ci fu l’ondata dei giovani autori, che poi sono diventati Sorrentino, Matteo Garrone, Paolo Virzì. Non vedo oggi quella crescita: su questo bisogna riflettere.

Sceneggiature deboli, carenze croniche di scrittura: non lo dico solo io, è vox populi
La qualità di sceneggiatura delle serie è aumentata enormemente. Per i film forse meno, credo per questa carenza di dialogo con i distributori. Tu dirai:  dovrebbero farselo i produttori per conto loro. E forse è vero.

Troppo spesso mi è capitato, da spettatrice, di chiedermi perché si è deciso di sprecare soldi per realizzare film senza idee, senza ragione e senza futuro.
Molti sono anche realizzati abbastanza bene, ma è come se non avessero nessuna idea del pubblico da raggiungere. Forse non si selezionano a sufficienza le idee, e non si è rigorosi sulle sceneggiature. Noi per le serie giriamo spesso la versione 12, la versione 14, facciamo quattordici versioni diverse di sceneggiatura. Non credo succeda lo stesso per i film. Quanto al criterio selettivo, per il cinema sarei favorevole. Ma il problema è: chi seleziona? Se la commissione è composta da operatori del settore, scatta il conflitto di interesse. Se vuoi evitare il conflitto di interesse, hai gente esterna ai processi creativi e produttivi. È una gestione complicata. Ma anche i contributi automatici, per quanto corretti qualitativamente da premi, festival, vendite estere eccetera, sono tutti da ripensare.

C’è un problema di fondo, però, che non fa bene alla diffusione del cinema come arte, ed è la dispersione dei titoli anche di eccelsa qualità, gli “imperdibili”, per intenderci, su una miriade di piattaforme anche minime. Per godere del Macbeth di Joel Coen occorre abbonarsi alla piccola Apple Tv. Moltissimi lo perderanno. Come può una famiglia normale cumulare tanti abbonamenti per il cinema in streaming?

Come utente questa cosa la soffro. È un problema reale che le piattaforme si devono porre. E c’è un problema di reperibilità: non si sa “cosa” sta “dove”. 

Altro fallimento italiano: c’è una quota di fondi pubblici (il 3 per cento di 700 milioni) per l’educazione all’immagine dei ragazzi, che dovrebbe creare basi di conoscenza ugualitarie per il nuovo pubblico. I francesi hanno tre programmi articolati per scuola materna, media e superiore. Da noi la gestione dei fondi è di fatto delegata all’iniziativa delle singole scuole e ai gestori dei festival giovanili. Da noi i ragazzi riempiono le sale solo per i supereroi. In Francia vanno a vedere tutto.
La Francia è molto diversa dall’Italia. In Francia il cinema, storicamente e culturalmente, ha una grande centralità. Ha sempre contato più della televisione. Infatti ha un pubblico che è il doppio di qualsiasi altro paese europeo, non è stato falcidiato nemmeno dalla pandemia. Ma i nostri ragazzi oggi mangiano immagini già a due anni, conoscono tutto, vedono serie di centinaia di ore. Gli insegnanti sono molto più ignoranti di loro, in materia di immagine. Dovremmo spendere più soldi per la formazione professionale. Oggi se cerchi uno sceneggiatore, anche di prima leva, devi metterti in fila e aspettare dei mesi. Vale per tutte le figure professionali: è difficile formare una troupe.

Veniamo comunque da un 2021 funesto al box office: meno 60 per cento negli Stati Uniti, in Italia meno 71 per cento di incassi e meno 73 per cento di presenze. I sondaggi americani rilevano che solo il 36 per cento dei consumatori di cinema continua a privilegiare la visione in sala, e che l’abbandono è più forte nella fascia tra i 45 e i 64 anni. Tutti a casa era il titolo di un vecchio, bellissimo film di Comencini. È anche il futuro del cinema?

Tutti a casa no, tutti ovunque. Bisogna raggiungerli là dove stanno.

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