Cinquant’anni di eleganza che hanno plasmato il nostro immaginario visivo e culturale, tra memoria, rigore, libertà e amore. C’è chi ha indossato un completo Armani per il primo colloquio di lavoro, e quel lavoro lo ha ottenuto. C’è chi si è sposato in Giorgio Armani. Chi ha scelto i suoi abiti per un debutto importante, una cena di gala, una serata indimenticabile. E c’è anche chi, nelle giornate più dure, nelle grandi tristezze o dopo una di quelle fatiche che sembrano non finire mai, ha trovato conforto dentro un abito del signor Armani. Come se quel tessuto, quella linea, avessero la capacità di restituire forza, dignità, persino un sorriso silenzioso.

Da cinquant’anni, i suoi vestiti accompagnano i momenti decisivi e quelli quotidiani: ci hanno protetto, ci hanno fatto sentire al sicuro, ci hanno insegnato che l’eleganza è anche una forma di cura, è una forma d’amore.

Giorgio Armani ha cominciato come vetrinista alla Rinascente. E anche in tarda età, quando avrebbe potuto starsene altrove, non era raro incontrarlo in via Manzoni a controllare le sue vetrine. Perché accanto alla creatività e alla genialità, c’è sempre stato in lui metodo, rigore e disciplina. È da questa ossessione per il dettaglio che nasce un immaginario. Non solo un linguaggio della moda, ma un lessico culturale che ha attraversato l’arte, il cinema, la fotografia.

Un linguaggio narrativo

Nato a Piacenza, sulle rive del Po, Armani da ragazzo amava il teatro e il cinema: i film gialli e noir che arrivavano dalla Francia, le pellicole americane con la loro grande eleganza formale. «Ero totalmente affascinato dall’atmosfera del teatro, dalle luci, dai costumi e dall’attesa che il sipario si alzasse sul silenzio della platea», ha raccontato. Ci fu un momento, in particolare, che segnò per sempre il suo immaginario: la messa in scena della Bohème a Piacenza. «Con la scenografia fatta di abbaini illuminati da candele, fui preso più dal mondo rappresentato che dal canto degli artisti. La mia piccola città si trasformò, ai miei occhi di ragazzino, in una grande Parigi che allora non avevo ancora conosciuto».

Ed è quasi un destino che proprio quest’anno la Scala abbia deciso di inaugurare la Stagione del balletto dedicando la Prima a Giorgio Armani, con La Bella Addormentata di Caikovskij, nella coreografia di Rudolf Nureyev. Un omaggio che intreccia la memoria d’infanzia con il presente: il teatro e la moda si incontrano sullo stesso palcoscenico, in un gioco di attese, luci, costumi e silenzi. La sfilata, come l’opera, diventa rappresentazione totale: un sipario che si apre su un mondo che non esiste e che, proprio per questo, rimane indimenticabile.

Nel 1980 Armani veste Richard Gere in American Gigolo: non solo un film, ma un manifesto visivo che ha ridefinito l’immagine dell’uomo moderno. Quella giacca destrutturata, quel guardaroba essenziale e seducente hanno fatto la storia del costume, e da quel momento Hollywood non ha più smesso di cercarlo. Michelle Pfeiffer nei suoi tailleur, Cate Blanchett, Leonardo DiCaprio, ma anche attori e registi italiani come Sophia Loren, Claudia Cardinale, Giuseppe Tornatore hanno trovato nel suo stile una seconda pelle. Armani ha saputo interpretare lo spirito del cinema e restituirlo in forma di abito. Il red carpet è diventato, con lui, un linguaggio narrativo a sé stante.

Nel 1982 Armani è il primo stilista italiano a comparire sulla copertina del Time, e quella fu anche la prima volta in assoluto che la rivista dedicava la cover a un creativo italiano. «Non è mai stata mia intenzione consapevole fare il rivoluzionario della moda, eppure è avvenuto», dichiarò più tardi. «Non mi riferisco solo ad aver liberato uomini e donne dalla rigidità suggerendo nuovi atteggiamenti, ma a una vera e propria rivoluzione silenziosa». Non l’esplosività barocca di Versace, né la rottura di Saint Laurent, ma un linguaggio che smantellava le regole con calma e fermezza, come una musica in sordina che cambia l’atmosfera di un’intera sala.

Andy Warhol lo ritrae come simbolo della contemporaneità. Martin Scorsese gli dedica il documentario Made in Milan (1990), ritratto intimo e raffinato di un pensiero estetico che si muove tra disciplina e libertà, in cui Milano è il centro. L’Italia rimane il luogo in cui il signor Armani desidera vivere. Il suo stile è cucito alle nostre vite.

Dialogo tra mondi

Ma Armani ha dialogato soprattutto con la fotografia. Aldo Fallai, Peter Lindbergh, Paolo Roversi, Sarah Moon: i suoi abiti non sono mai semplicemente abiti, ma visioni. Ogni immagine diventa tassello di un atlante estetico che ha ridefinito l’idea stessa di eleganza. Sobria, precisa, essenziale: una grammatica che ha ridisegnato il gusto italiano e internazionale, imponendosi come linguaggio universale.

Questa forza si è nutrita anche dei viaggi: suggestioni orientali, memorie africane, linee architettoniche occidentali. Mai citazioni didascaliche, ma un respiro culturale capace di trasformare la moda in esperienza antropologica.

Armani è stato capace di mettere insieme mondi lontanissimi: l’haute couture di Privé, il prêt-à-porter che ha vestito generazioni intere, fino allo stile di strada. Negli anni Ottanta i Paninari sfoggiavano con orgoglio i jeans con l’aquila, segno distintivo di un’appartenenza, di un sogno di eleganza accessibile e insieme fortemente identitaria. Così Armani è entrato nelle case, nelle piazze, nei gesti quotidiani, nello sport, senza mai perdere il rigore e la riconoscibilità del suo linguaggio.

Tra i primi segni di una moda globale e di un’estetica sperimentale c’è stato anche il grande murale in centro a Milano, icona immobile davanti alla quale la vita cittadina scorreva, trasformandolo in punto fisso della quotidianità urbana. Da questa spinta nasce Emporio Armani Magazine: incrocio tra rivista e catalogo, laboratorio visivo che ha rappresentato un modo inedito di pensare il linguaggio della moda, contaminandola con tutto. In quegli stessi anni a New York, Andy Warhol fotografa Keith Haring davanti allo store Emporio Armani: un artista di strada, simbolo della cultura pop e del pensiero libero, che trova nella vetrina Armani un contrappunto visivo e ideale.

Jean-Michel Basquiat, con la sua forza selvaggia e istintiva, viene vestito Armani: segno che lo stile piacentino non era solo un linguaggio del lusso, ma una grammatica culturale capace di attraversare mondi opposti, dall’élite al sottosuolo creativo. Lì, tra misura e caos, tra rigore e irriverenza, si è giocata la partita che ha reso Armani non solo uno stilista, ma un’icona della cultura globale.

Non a caso le sue creazioni sono entrate nei musei di tutto il mondo, dal Metropolitan di New York al Victoria and Albert di Londra, riconosciute come opere di design e testimonianza estetica di un’epoca. Nel 2000 il Guggenheim di New York gli ha dedicato una retrospettiva monumentale, poi approdata a Bilbao, Londra, Roma e Tokyo, fino alla Triennale di Milano.

Il rapporto con Milano è parte integrante della sua storia. Nel 2015 ha aperto Armani/Silos, ex magazzino granario trasformato in archivio vivo, luogo di ricerca e di memoria condivisa. Non un museo statico, ma un’offerta culturale permanente alla città. Qui, la scorsa primavera, è stata inaugurata la mostra Giorgio Armani Privé 2005-2025. Vent’anni di Alta Moda: 150 abiti da sogno in dialogo con cinquant’anni di storia della maison.

Amore e memoria

Anni fa Armani ha pubblicato uno dei suoi libri più importanti: non solo un volume di moda, ma un’autobiografia intellettuale che raccontava la sua filosofia del vestire e dell’abitare il corpo. L’editore, commosso, ricordò un gesto raro: Armani ordinò tante copie quante erano i dipendenti, affinché ognuno di loro ricevesse il libro in dono. Un piccolo atto che dice molto: quell’immaginario era stato costruito insieme, e doveva appartenere a tutti.

«Ogni collezione nasce da una sete di scoperta» mi ha raccontato Armani in una recente intervista per Il Giornale dell’Arte. «Un’intuizione è un lampo che però va disciplinato da una grande razionalità progettuale». Nel suo racconto ritornano le passioni: il cinema neorealista, con i suoi personaggi capaci di conservare dignità anche nella povertà; Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, libro che lo accompagna da sempre; Verdi, per l’intensità con cui racconta l’anima italiana.

Il suo ideale di donna è forte, indipendente, fedele alla propria grazia naturale: «Qualità che aveva mia madre, mi ha detto, il suo stile era autentico».

Per Armani, «l’eleganza è una forma di rispetto, per sé e per gli altri». Un equilibrio, un modo di stare al mondo senza eccessi. Questa è forse la sua vera eredità: aver insegnato che la moda non è superficie, ma profondità. È un linguaggio culturale che parla di disciplina, dignità, misura, e insieme di libertà.

Ed è così che, in cinquant’anni, Giorgio Armani ha costruito un patrimonio che non si consuma con le stagioni. Perché l’amore, questo amore, non è fatto di tendenze, ma di memoria, di Archivio. Che si tratti di un matrimonio, di un colloquio, di un red carpet o di una giornata difficile, c’è sempre un abito Armani pronto a restituire equilibrio. A farci sentire protetti. A farci sentire al sicuro. A ricordarci che l’eleganza, prima di tutto, è un atto d’amore.


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