Il premio principale è andato al film A Simple Accident, girato in clandestinità, ironia e metafora contro il regime. «Credo che sia il momento di chiedere a tutti gli iraniani nel mondo di mettere da parte problemi e differenze, la cosa più importante è la libertà del nostro Paese. Il cinema è una società, nessuno ha il diritto di dirci cosa fare, cosa non fare». Un black-out sospetto prima della cerimonia
Cannes ha premiato l’Iran dissidente. La Palma d’oro è andata a Jafar Panahi per A Simple Accident, girato in clandestinità, ironia e metafora contro il regime. «Credo che sia il momento di chiedere a tutti gli iraniani nel mondo di mettere da parte problemi e differenze, la cosa più importante è la libertà del nostro Paese. Il cinema è una società, nessuno ha il diritto di dirci cosa fare, cosa non fare».
È un palmarès in sordina, da campionato di serie B. Ma il black out che ha paralizzato Cannes a ridosso della Palma d’oro, palesemente doloso per la Gendarmeria, racconta un Festival scomodo, troppo politico, da imbavagliare. Ammesso che non si stia nobilitando un sovraccarico di corrente che la cittadina già in passato ha sperimentato.
L’alta macelleria monopolizzatrice di lucciconi sugli schermi ma dilagante nei notiziari, Gaza in primissimo piano, la narrazione cioè più applaudita dalle platee progressiste (se durano), con la fiction non ha niente a che fare. È stato un festival in mezzo lutto. Segni visibili, gli after party col silenziatore e i dress code delle marches senza poppe al vento. Il luccichìo delle star messo in ombra dal Convitato di Pietra. Gli haters di prima linea, come Spike Lee, nemmeno lo nominavano, per pudicizia. È l’inquilino della Casa Bianca. Che ha fatto il miracolo. Ha convertito perfino i produttori in barricaderi.
I dazi e la politica
Lo spettro che si aggirava per Cannes, poche storie, era il dazio del 100% sui film stranieri appena minacciato da Washington. Peggio: esteso ai prodotti americani girati all’estero. Il salvavita del Festival. Gli ha dato sprint, ha coalizzato il fronte. La tasca fa sanguinare i cuori più dello sterminio di massa. Un festival con la casacca del combattente: contro il fascismo Usa, la resistenza europea. Bella idea, se fosse vero. La statua della Libertà in cima alle Marches del Palais: il nuovo spot di Frémaux. Due mesi fa l’eurodeputato Raphael Glucksmann aveva chiesto polemicamente la restituzione, perché gli Usa non incarnano più i principi di libertà e democrazia che ispiravano il dono.
Peccato che l’Europa pulluli di imitatori bonsai. La lungimiranza di Orwell aveva piazzato l’Oceania di 1984, il mondo del Grande Fratello, in Inghilterra, non nell’URSS di Stalin. La Germania hitleriana era in ginocchio e il Regno Unito era il baluardo della resistenza europea. Nel vocabolario aggressivo di J.D. Vance, “orwelliano” è l’insulto più ricorrente e più denigratorio, quello che a parer suo copre di escrementi l’avversario. La nuova mappa del totalitarismo occidentale, dichiarato o strisciante, riconosce in quella distopia letteraria l’essenza della propria natura. 1984 oggi non è fantapolitica, è cronaca vera.
Il documentario di Peck
Per questo la risposta più lucida e più schiettamente politica allo scenario presente non è arrivata dai film in concorso, ma da Orwell: 2+2=5 di Raoul Peck, haitiano, uno dei massimi documentaristi viventi. Il suo I Am Not Your Negro è stato candidato all’Oscar, e Oscar è il documentarista Alex Gibney, che ha prodotto il film. Questo documentario è il vero, centrale, «gesto politico» di Cannes. Con qualche rara eccezione – O Agente Secreto di Kleber Mendonça Filho, Eagles of the Republic di Tarik Saleh, Two Prosecutors di Sergei Losnitsa e come sempre Jafar Panahi – il cinema che ha corso per la Palma 2025 non sembra aver ancora metabolizzato la deriva globale in atto.
Il dogma dell’equazione sbagliata, 2+2=5, è al centro di una delle pagine capitali di 1984, ma non è un’invenzione di Orwell. Come sinonimo del pensiero totalitario l’aveva citata l’abate Emmanuel Joseph Sieyès nel pamphlet Che cos’è il terzo Stato? che – ricorda Piergiorgio Odifreddi – divenne il manifesto della Rivoluzione Francese: «Se la Costituzione stabilisce che duecentomila persone su ventisei milioni di cittadini possono eleggere due terzi del Parlamento, allora due più due fa cinque». E così Victor Hugo commentava il risultato del referendum del 1851 a favore del colpo di stato di Napoleone III: «Non si va lontano se sette milioni e mezzo di votanti dichiarano che due più due fa cinque». Hermann Göring ne aveva fatto un assioma: «Se il Fuhrer vuole, due più due fa cinque».
Da Orwell, capitolo tortura: «Quante sono le dita che tengo alzate, Winston?» / «Quattro»/ «E se il Partito dice che non sono quattro ma cinque, quante sono?». Ecco spiegato il titolo del film di Peck, che intreccia la storia umana dello scrittore e l’evoluzione del suo pensiero a spezzoni di film collegati a 1984 e a La fattoria degli animali, ma soprattutto alla documentazione contemporanea che illustra la macchina del totalitarismo in azione, oppressione e morte mascherate attraverso la propaganda. In Italia sarà distribuito da IWonder Pictures.
Sono tre linee di analisi interconnesse. Perché gli slogan del Partito del Grande Fratello, «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza», declinano il precipizio di manipolazione della verità e della storia che oggi stiamo vivendo.
Il regista haitiano
Raoul Peck parte dagli anni, dal 1947 in poi, in cui Orwell mette mano a 1984. È consumato dalla tubercolosi e ha messo radici nell’isola di Jura, sulle coste scozzesi. Il libro sarà pubblicato nel 1949, e sette mesi dopo l’autore muore, a quarantasei anni. Il regista attinge dai romanzi, dalle lettere e dalle pagine del diario privato dello scrittore per raccontare un’infanzia e una adolescenza nella lower upper middle class, che imita l’alterigia e il bon ton dell’aristocrazia senza condividerne i mezzi né la collocazione nella gerarchia sociale.
Chi ha letto Giorni in Birmania sa bene che la messa a punto delle sue idee, astrattamente socialiste in partenza, durante il suo servizio nella Polizia Imperiale delle Colonie conosce un balzo cruciale. «Per capire l’imperialismo bisogna farne parte – scrive – ma non è possibile farne parte senza riconoscerlo come una tirannia ingiustificabile». Ci sono riflessioni che andrebbero mandate a memoria: «L’idea che un’opera d’arte dovrebbe essere esente dalla politica è solo un’attitudine politica».
L’interconnessione tra Potere e media in 1984 però soprattutto, a riesaminarla, sembra cronaca contemporanea. Winston, protagonista del romanzo, è uno dei salariati del Ministero della Verità incaricati di riscrivere la storia a misura di regime. E si conia un nuovo linguaggio di propaganda, il Newspeak, per camuffare i fatti con eufemismi bugiardi. Il Newspeak in uso nel nostro presente geopolitico, sostiene il regista, comprende espressioni come «operazioni di pace», «danni collaterali», «recessione» e, nella campagna di disinformazione pro-israeliana su Gaza, «antisemitismo 2024». «Tutti credono alle atrocità del nemico – scriveva Orwell – e nessuno crede alle atrocità della propria parte, senza nemmeno disturbarsi a esaminare l’evidenza».
Vale per l’assalto a Capitol Hill, che i partecipanti descrivono davanti alle telecamere come “meraviglioso”, e vale per le pubbliche impiccagioni dei Nazisti nell’Ucraina del 1946. Vale per gli anarchici delle Brigate Internazionali sterminati dagli stalinisti durante la Guerra Civile spagnola. Orwell c’era, nelle file del Poum, e di questa feroce “pulizia” interna dà conto in Omaggio alla Catalogna. Vale per il Myanmar, Gaza, l’Ucraina, Haiti e tutto il dettagliato corredo campionato dal film.
In questo contesto i paradossi quotidiani dei vari leader mondiali suonano ridicoli, ma spaventosi. Tra di loro anche Giorgia Meloni, che esorta a non perdere tempo con le lamentele sui macellai confratelli, «di fronte al genocidio dei cristiani nel mondo».
Come il Ministero della Verità dell’Oceania, la manipolazione sistematica sta cancellando la stampa libera. Trump e i suoi simili riscrivono la realtà secondo la propria narrativa. La guerra è pace. La schiavitù è libertà. L’ignoranza è forza. «L’idea che due più due faccia cinque mi terrorizza più delle bombe – scriveva George Orwell – e non è un modo di dire». È per film come questo che su Cannes piomba il buio, se di vero attentato si tratta. La forza è ignoranza.
Gli altri premi: Grand Prix a “Sentimental Value” di Joaquim Trier; premio della Giuria ex aequo a “Sirat” di Oliver Laxe e “Sound of Falling” di Mascha Schilinski; migliore regia a Kleber Mendonça Filho per “O Agente Secreto”; premio speciale a “Resurrection” di Bi Gan, miglior attore Wagner Moura per “O Agente Secreto” - migliore attrice Nadia Melliti per “La Petite Derniere” di Hafsia Herzi - migliore sceneggiatura a Luc e Jean-Pierre Dardenne per “Jeunes Meres” - Camera d'Or a “The President's Cake” di Hasan Hadi - Palma d'oro per il miglior cortometraggio a “I'm Glad You're Dead Now” di Tawfiq Barhum
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