Tommaso: il carissimo, l’imprevedibile, l’antipatico Tommaso Labranca. Sono passati sette anni dalla sua morte. Ho letto Labrancoteque, GOG edizioni: raccoglie su carta i quattordici numeri della rivista che Tommaso pubblicò in rete nel 2013. È stato come ritrovarlo vivo e scintillante. Trentacinque anni fa, lui era stato per me un apripista disinibitore, per diventare alla fine un ex complice ostile.

L’ho conosciuto alla fine degli anni Ottanta, tramite un’amica. Lavoravano insieme in una redazione milanese, di quelle che prendevano lavori in appalto: articoli e libri per conto terzi. Una rivista di pesca, senza avere mai preso in mano un amo o una canna; un’Enciclopedia del cane; cose così. Tommaso riusciva a divertirsi lo stesso. Ci infilava arguzie e stoltizie, incipit di articoli tipo «E ora che avete in mano il branzino, che farne?»

Labranca, l’imprescindibile, l’incontentabile Tommaso Labranca. C’è ancora chi non lo conosce? Davvero avete bisogno che vi ricordi chi è? Non avete letto il magnifico Le alternative non esistono di Claudio Giunta, Il Mulino, 2020, che ne racconta vita, opere, malinconie e malefatte?

Per quei pochi ancora ignari: Tommaso è una categoria dello spirito; più che un Genius Loci, è stato un Genius Temporis, il simbolo di un’epoca e il suo più originale ermeneuta.

L’umanità è una copia

Da giovane, fotocopiava e spillava per conto suo una rivistina chiamata pomposamente Artecrazia Italiana, in cui spiccava un motto, La Misère Provoque Le Génie: di origini piccolo borghesi, figlio di immigrati, viveva a Pantigliate, nella periferia agricola a sud di Milano. Da quella postazione giudicava il Presente, inteso proprio come Incombenza Totalizzante, Legge Sociale Travestita Da Impermanenza (perdonami, Tommaso, per le maiuscole; servono a mostrare che ciò che facevi non era fatuo, come poteva sembrare).

Gli mandai mezza pagina in morte di Francis Ponge. La pubblicò. Era un testo minuscolo, ma in ogni caso Tommaso è stato il mio primo editore.

Poi, la svolta decisiva. Lavorando di taglia&incolla, sia con forbici e carta, sia al computer, fascicolò una rivista autoprodotta, TrashWare, fotocopiata a colori e a sbafo sui macchinari dell’ufficio. Me la spediva a casa, è tra i miei più cari cimeli. È stato da allora che è diventato uno scrutatore sistematico dei suoi simili, soprattutto dissimili, azzerando ogni pregiudizio, sospendendo qualsiasi gerarchia di valore. Prendeva sul serio le castronerie, e castrava la seriosità.

Poi sono arrivati i primi capolavori. Due libretti rilegati a colla: Agiografie non autorizzate (1992) e Giovani salmoni del trash (1993). Me li spedì. Li lessi e rilessi un’infinità di volte. Finalmente ai miei occhi c’era Qualcuno Che Ha Capito Tutto. Tommaso aveva colto il sentimento del tempo. Senza bisogno di chiamare in causa il bovarismo di massa, né la teoria del desiderio mimetico di Réné Girard, il trentenne Labranca mostrava che in quegli anni eravamo esposti a un travestitismo collettivo, dozzinale e vivace, in cui la cifra accomunante era: l’emulazione fallita. La definizione del Trash come Emulazione Fallita è stato il suo contributo principale all’interpretazione della nostra epoca, e forse dell’intera esistenza.

Tommaso ti insinuava il dubbio che sotto sotto fossimo tutti trash, cioè copie fallimentari di modelli irraggiungibili (statunitensi, ma non solo). Labranca platonico? L’umanità è una copia fallata di un’inattuabile idea di Bene, di Amore, di Felicità? Più laicamente, Tommaso descriveva le ambizioni di gloria e di successo, i vorreimanonposso, o meglio, i vorreimanonciriesco, e soprattutto i ciprovomafacciopena.

Scriveva ghignando, e faceva tantissimo ridere portando esempi da pubblicità, moda, design, televisione, letteratura: «Nel noto programma di vendite a domicilio Domenica con Semeraro, trasmesso da varie tv locali un po’ in tutta Italia, il presentatore Walter Carbone cerca di emulare Pippo Baudo, ma non potendo invitare Madonna e dovendo ripiegare su Mario Tessuto, il suo risultato è trash. Nei suoi libri e film Alberto Bevilacqua cerca di emulare certi artisti aulici, ma innestando l’estetismo decadente sulla crapulaggine parmense, il suo risultato è trash».

Fin qui, nient’altro che la solita satira. Ma il valore aggiunto labranchiano era considerare il trash anche una possibilità inventiva per le classi popolari. La gente subiva modelli televisivi e pubblicitari ossessivi, spesso mediocri già alla fonte; non poteva che assorbirli e poi riessudarli, ricombinandoli un po’ a casaccio: però a volte da questo bricolage uscivano opere, prodotti, canzoni, fumetti e mode geniali, anche senza intenzioni artistiche roboanti. Troppo facile denigrare: Tommaso incoraggiava e rivalutava. Era come se ti dicesse: che dobbiamo fare, ci è capitato di vivere in un’epoca cialtrona, assediata da massmedia potentissimi e triviali, che rendono tarocca la vita. Nonostante tutto, a partire da questi materiali possiamo trovare comunque una postura esistenziale, uno sbocco personale, se non del tutto originale, perlomeno decoroso e perfino appassionante.

Lanciato dai comunisti

All’epoca non conoscevo persone influenti. Quei pochi contatti giornalistici e editoriali che avevo li tartassai per proporre i saggi inediti di Tommaso. Incuriosii Alberto Castelvecchi, che li pubblicò nel libro d’esordio ufficiale, il leggendario Andy Warhol era un coatto; e convinsi la redazione culturale del Manifesto a lasciarmelo recensire, pur essendo Labranca assolutamente sconosciuto: quell’articolo venne inaspettatamente sparato in prima pagina, sulla copertina del supplemento letterario La Talpa Libri: era il 1994, prima della rete; i giornali contavano ancora moltissimo. Incredibile, a ripensarci: Labranca (che quindici anni dopo avrebbe collaborato a Libero non perdendo occasione per sbertucciare la sinistra) fu lanciato dal Quotidiano Comunista nazionale.

Ma devo tornare indietro e raccontare come lo conobbi dal vivo. Venezia e Milano sono vicine, eppure mi ci vollero anni, prima di incontrarlo di persona. Era il 1993, mi invitò a Milano in un capannone industriale dismesso, da lui ribattezzato PalaTrashardi, per partecipare a “la prima C.I.S.T.E.”, Convention Internazionale Sul Trash Europeo, insieme a una manica di spiantati e squattrinati.

Tommaso ci parlò di presa del potere. Sul serio. Davanti a persone sbigottite che si erano conosciute quel giorno, si mise a teorizzare sulle strategie con cui, non contando niente e provenendo da classi sociali irrisorie, potevamo scalare il potere culturale. Il potere? Noi? Lui ci riuscì nel giro di pochi anni. Anche per causa mia. Nel 1995 gli proposi di partecipare a un convegno letterario a Venezia, Boccaloni e B 52, sulla cosiddetta Nuova Narrativa Italiana (organizzato insieme a Gianfranco Bettin e Roberto Ferrucci). Gli affidammo una delle tre prolusioni principali, di fronte a tanti scrittori e scrittrici, editori e editor, studiosi e critici militanti. Lui citò frasi e pagine disastrose tratte dai romanzi italiani di quegli anni, in faccia a chi le aveva scritte, concludendo con un liberatorio «Lo so, di tutto questo un giorno rideremo. La mia proposta è: perché aspettare?» Fragore in sala, crepapelle, apoplessia comica; e Labranca di colpo inciso nei cuori dell’intelligencija italiana più vitale.

Entrò in televisione e nel 1997 partecipò ad Anima mia, una trasmissione Rai condotta da Fabio Fazio. Compariva in video anche lui: l’anima nazionale, secondo Tommaso Labranca galleggiava su una specie di Italian Trash Vortex interiore, viveva in una incessante ricapitolazione pop dei propri gingilli, dalle vecchie canzoni dei Cugini di Campagna ai copritelefono di broccato, con la passamaneria dorata cucita sugli orli. L’eternità incisa nella psiche collettiva era una fantasmagoria di oggetti culturali scadenti e scaduti, rimossi e indimenticabili. Tutta roba impresentabile che lui spietatamente ripresentava. L’altroieri e lo ieri tornarono a divorare il presente. Anima mia mostrava ai telespettatori un’appartenenza comune di cui commuoversi ridendone, e provare vergogna assolvendosi tutti insieme. Ebbe un successo strepitoso.

La delusione

Nel frattempo avevo esordito anch’io, e per puro culo il mio primo libro era stato pubblicato all’inizio del 1996, l’anno degli scrittori Pulp e Cannibali, romanzi e racconti che contenevano un’analoga mistura di pop, trash, slanci letterari e immaginario svalvolato.

Nella primavera del 1996, insieme a Tommaso Pellizzari, Tommaso Labranca accettò di presentare il mio romanzo in una libreria milanese. Ricordo che mi chiese a bruciapelo (mi scotta ancora): «Quanto devi alla mia influenza?».

Pellizzari gli domandò: «Scusa, Tommaso, perché non lo scrivi tu un romanzo?»

E Labranca: «Ci ho provato! Ma quando comincio a descrivere un personaggio, mi viene da criticare ferocemente come si veste, i suoi gusti. Non riesco a trattenermi, lo stronco…» Esilarante. E profetico riguardo ai suoi, di romanzi, che scrisse dopo il Duemila: trasferì la sua insofferenza alla voce narrante del protagonista (leggere 78.08 per credere).

Intanto io proponevo i suoi inediti a editori più grandi, Feltrinelli e Einaudi, a volte con successo, a volte no, nonostante la fama di Anima mia.

Intorno al Duemila proposi a lui e Aldo Nove di fare un sito insieme, che sardonicamente avrebbe potuto chiamarsi intellettualipuntoit. Il dominio digitale era libero, lo registrammo. Con Labranca e Nove mi sentivo in perfetta sintonia. Tommaso lo seguivo ormai da una dozzina d’anni, Aldo Nove lo avevo conosciuto dopo l’uscita di Woobinda, scoprendo che anche lui era un devoto di Labranca. Sembrava che ci stessero, poi si tirarono indietro. Aldo Nove non so come mai; Tommaso perché – secondo me – non tollerava di avere un ruolo inter pares: non voleva compagni ma discepoli. Il mio distacco da lui è cominciato da quella delusione. Trovai altri fiancheggiatori, più appassionati e volonterosi.

Col tempo, mi sembrava che si fosse involuto. Negli anni Novanta provava simpatia per il popolo che aveva reagito all’intossicazione massmediale secernendo enzimi trash; nel Duemila odiava i neoproletari che risparmiavano sul cibo per pagare le rate dell’ultimo modello di Suv. Molto di quel che scriveva, oltre che dalla committenza nasceva dal risentimento, che agli inizi era una sacrosanta battaglia culturale contro il sussiego fasullo, e in seguito diventò una sistematica stizza. Lo si vede anche da Labrancoteque, estremo frutto di un misantropo mondano. Se la prendeva con figure trascurabili, apprezzava poco o niente (fra le poche eccezioni, i Baustelle).

Se la legava al dito, non dava una seconda chance a nessuno, imputava ogni nefandezza a editori e datori di lavoro, ma anche a incolpevoli colleghi e amici che gli volevano sinceramente bene e avevano sempre fatto festa per i suoi successi.

È insensato ciò che scrive l’editore GOG presentando Labrancoteque, quando parla di «mafietta editoriale» che a suo dire avrebbe rigettato i libri di Labranca. Di case editrici possibili ce ne sarebbero state varie, e (come attestano gli archivi) c’eravamo anche noi amici e colleghi pronti a dargli una mano (come avevamo sempre fatto), se solo si fosse degnato di accettarla. Ha preferito fare la vittima: aut Caesar, aut nihil. Ma non importa. Labrancoteque è una lettura necessaria. È una ricchissima raccolta di articoli, interviste, saggi. Vi risparmio la lista degli argomenti: vanno dal cinema alla musica pop, dal marketing alla moda. C’è anche un magnifico saggio a puntate sull’uso degli oggetti nei film italiani, dal dopoguerra al Duemila (segnalo che a pagina 277 è saltata la parte finale dell’analisi su Visconti).

Tommaso era un’eruzione continua. Ha sparso centinaia di lapilli, incandescenti ancora oggi: raccattandone uno fra i tanti (gli Adelphake: finte copertine della casa editrice Adelphi per libri infimi), gli emulatori Adelphighetti ci hanno costruito un brand.

Godere o criticare

Da dove nasce la critica sociale? La risposta più sciocca che mi viene, dopo aver letto Labrancoteque, sarebbe: dalla mancanza d’amore. Nelle pieghe di questi testi, Tommaso ne ha lasciato qualche traccia, lui che non parlava della sua intimità: in un’intervista, ispido come sempre, dice che non si è mai innamorato in vita sua; in un’altra, alla domanda «Se dovesse cambiare qualcosa nel suo fisico, che cosa cambierebbe?», dà una risposta struggente: «Il fisico». Tommaso non si piaceva. La prova che, attraverso i suoi sarcasmi, cercasse affetto e considerazione, sta anche nel fatto che in ognuno di questi quattordici capitoli (i quattordici numeri del magazine) c’è un intervista a lui; chiedeva ai lettori di mandargli dieci domande per e-mail, e in chiusura di ogni numero rispondeva. Non so se mi spiego: pubblicava una rivista che definiva “egozine”, e che ogni volta terminava con un’intervista dei lettori a sé stesso.

D’altronde, è anche quando ci si sente esclusi dal godimento sociale che nascono i punti di vista stranianti sul mondo, i meno allineati e quindi i più acuti.

Se la società organizza la vita comunitaria per godere in un certo modo; se essa struttura le istituzioni, i costumi e i consumi presupponendo un piacere collettivo predominante, ebbene, chi non prende parte a quel piacere egemone sarà il critico perfetto del sistema sociale: dall’economia alla cultura, dai mass media alla politica. Basti pensare all’enorme apporto dissenziente dei romanzieri e poeti omosessuali, da Palazzeschi a Pasolini, da Arbasino a Tondelli, da Busi a Siti.

Di recente, Marco Belpoliti ha rimproverato a Pasolini proprio questo, e cioè il fatto che la sua critica alla modernizzazione dell’Italia postsessantottina derivasse da un suo tornaconto erotico, perché nell’Italia di prima, repressa e bigotta, per lui era più facile sedurre ragazzi eterosessuali. Ma scoprire il conflitto di interessi libidici da cui scaturisce una critica sociale basta a disinnescarla? È un motivo sufficiente per buttarla via?

Nel caso di Tommaso Labranca, nella fase finale del suo percorso di fustigatore moralista, semmai i punti deboli sono altri. Una regressione a categorie che lui stesso aveva contribuito a smantellare, “destra” e “sinistra”: ormai le trattava come puri tic comportamentali, come giochi di società più che come scelte di vita. Fu un passo indietro verso un’attrezzeria ermeneutica datata e facilona (e ancora in vigore: qualsiasi nequizia culturale viene collocata nella casellina del radical chic). Per esempio, nell’eruditissimo saggio sulla disco-dance degli anni Settanta, Tommaso rimprovera alla “sinistra” di non aver apprezzato quella musica. Ma io ricordo perfettamente che il rigetto adolescenziale per quei dischi si fondava su una severità estetica, la politica non c’entrava niente: come ascoltatori esigenti, ci sembrava troppo comodo risolvere la creazione musicale adagiandosi sempre sullo stesso tump-tump che uniformava le canzoni.

Poi, anche da questa raccolta emerge quanto Tommaso fosse essenzialmente milanocentrico, e tendesse a sopravvalutare i fenomeni e le mode che imperversavano in città, come se fossero uno spiraglio sufficiente a sbirciare l’Italia tutta.

Ad ogni modo, Labranca è una miniera. Confidiamo che chi ha ereditato i suoi diritti d’autore non faccia scherzi. Oltre a Andy Warhol era un coatto, va ristampato Il piccolo isolazionista. E poi Neoproletariato, 78.08, Progetto Elvira, Poesie dell’Agosto oscuro, Haiducii, Estasi del pecoreccio, Vraghinaroda, Astrakhan, Mu, oltre a varie gemme disseminate nelle biografie di Orietta Berti, Michael Jackson, Renato Zero, Pietro Taricone… Un sacco di roba, spesso pubblicata semiclandestinamente: è come se fosse inedita. Tommaso Labranca ha ancora tantissimo da ridirci.

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