Ieri mattina al terzo piano del Nazareno, alla conferenza stampa della vittoria – c’era il pienone dei dirigenti, come sempre quando le cose vanno bene, ma lei si è presentata da sola davanti ai microfoni – Elly Schlein ha spiegato che non aveva ancora sentito Giuseppe Conte, e che non aveva ancora in testa – o non voleva anticiparla ai cronisti – una road map per la ricostruzione del centrosinistra.

Comunque la prima mossa tocca a lei. Il risultato delle europee, questo 24,1 per cento inaspettato e persino insperato, è quello del “suo” Pd. Che non è “suo” perché ha fatto tutto lei: anzi nella conta delle preferenze la segretaria-candidata non è al vertice della classifica dei big, dominata rocciosamente da Antonio Decaro (496.135 voti) e Stefano Bonaccini (389.284).

È suo perché ha fatto molte scelte di testa sua, a volte incomprensibili, spesso non comunicate tempestivamente, non ai cronisti, ma ai suoi stessi dirigenti. “Sue” sono le liste: non perché siano vicini a lei tutti gli eletti a Bruxelles – anzi, la maggioranza lì sarà più vicina all’area riformista – ma perché è stata sua la scelta di tirarla per le lunghe, per piazzare alcuni candidati direttamente scelti da lei, aprendo faticosamente spazi fra un big e l’altro.

In questa scelta c’era molta più strategia di quella che si può sospettare in una ex movimentista (che però è anche ex parlamentare europea), amica delle sardine, proveniente dalla sinistra-sinistra, sospettata di non avere la necessaria esperienza di un partito grande e complesso come il suo; di favorire quelli come lei, di mortificare gli amministratori e i dirigenti di lungo corso, quelli dell’area riformista che non l’hanno votata.

È stata definita «una donna sola al comando» del Nazareno, le è stata contestata una gestione solitaria del partito, persino un po’ settaria nella scelta dei suoi collaboratori stretti e poi nella composizione delle liste. Critiche non più ruvide di quelle rituali che sono arrivate nelle diverse stagioni a ogni segretario del Pd.

Radicalizzare il Pd?

È stata soprattutto, ed è tuttora, sospettata di voler radicalizzare il Pd. Fin qui in realtà, a parte qualche ragionevole critica al Jobs act e alla dottrina Minniti, nella sostanza non l’ha fatto: è vero che ha chiamato qualche pacifista nelle liste, ma ieri ha ribadito che non si è «mai» sfilata dagli aiuti militari all’Ucraina, sottolineatura importante alla vigilia di un nuovo decreto per la fornitura delle armi a Kiev.

Del “suo” partito dà una definizione asciutta: «Abbiamo lavorato per tenere insieme il Pd senza rinunciare a costruire un’identità chiara e credibile». Racconta che “adesso” «ci fermano per strada sulle nostre battaglie: sulla sanità pubblica, sul salario minimo. Finalmente». La sua campagna elettorale, 123 tappe – «ma non ci fermiamo, già domani ripartiamo per stare tra la gente, faremo la 124esima» – è stata la pratica del Pd che ha in testa, «popolare anche senza essere populista. Ho chiesto di organizzarmi una campagna non solo nelle grandi città, ma anche nelle aree interne, nelle periferie».

Il risultato ha premiato la scelta. Il Pd ha accorciato la distanza con FdI, e reso un baratro quella con il M5s. Ora dunque tocca a lei il ruolo di “federatrice” del futuro centrosinistra. Si è guadagnata i galloni sul campo: «Noi sentiamo come prima forza d’opposizione, come perno indiscusso dell’alternativa, la responsabilità di costruire l’alternativa a queste destre».

E però i potenziali alleati continuano a litigare: Giuseppe Conte, nonostante la batosta, non ha fatto cadere il suo veto verso Carlo Calenda e Matteo Renzi, e i due a loro volta continuano a beccarsi fra loro. Schlein avverte: «Il tempo dei veti è finito. Noi non ne poniamo, ma non intendiamo neanche subirne». Procede con pragmatismo, puntando a creare «ampie convergenze che costituiscano la base di un programma alternativo», su pochi temi, cinque , scuola pubblica, lavoro, sui diritti.

Poi un’altra stoccata agli alleati rissosi. «Chi ha avuto l’atteggiamento più unitario è stato premiato», cioè il Pd e l’alleanza rossoverde. «Mi viene da dire che le divisioni non pagano. Non credo che perseverare in questa strada di divisione o di competizione col Pd porti a un risultato diverso – se non peggiore – di quello che c’è stato ieri». A Conte, Renzi e Calenda manda a dire dunque che se stavolta è andata male, continuando a farsi del male potrebbe andare loro persino peggio.

Le amministrative

Proprio in questo senso dalle amministrative arrivano notizie utili: in Piemonte, dove Pd e Cinque stelle correvano separati, Alberto Cirio vince in carrozza e veleggia oltre il 55 per cento. A Bari la vittoria (che poteva essere comodissima) di Vito Leccese è rimandata per le divisioni con i Cinque stelle e la candidatura di Michele La Forgia. A Firenze Sara Funaro passa al secondo turno con ampio margine rispetto a Eike Schmidt, e anche in questo caso le divisioni sventano una vittoria immediata.

Quella che infatti si guadagna larghissimamente Massimo Zedda a Cagliari, a capo di una coalizione Pd, Cinque stelle e Progressisti (più civiche, i centristi qui si sono sparsi o schierati con la candidata della destra). Come a Bergamo, Elena Carnevali (senza Cinque stelle). A Perugia una larghissima coalizione rischia di riportare già al primo colpo una città che da dieci anni era amministrata dalla destra. Gli scrutini vanno avanti fino a sera, ci sarà tempo per valutare gli esiti città per città. Ma il messaggio consegnato ai partiti del centrosinistra è generalmente sempre lo stesso.

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