I fedelissimi, i patrioti dicono che il punto di svolta o meglio di accelerazione della corsa di Giorgia Meloni alla premiership, sono state le elezioni europee del 2019 quando Fratelli d’Italia arrivò alla soglia d’accesso del 4 per cento superando abbondantemente il 6. Gli alleati del centrodestra, ad eccezione dei leghisti, concordano sull’anno, ma non sul giorno: Maurizio Lupi, giura, per esempio, che il click c’è stato il 3 agosto a Milano Marittima quando Matteo Salvini fece brillare il 34 per cento della sua Lega, nazionalista e personalizzata, nell’euforia del Papeete e dei pieni poteri.

L’autocoscienza leghista identifica invece il se non ora quando di Giorgia ancora con un altro luogo e un’altra data: «È stato a Roma, in piazza San Giovanni, il 19 ottobre alla manifestazione del centrodestra voluta da Matteo. Lì Giorgia ha parlato da leader», ci dice il leghista Edoardo Rixi già sottosegretario alle Infrastrutture del governo gialloverde ricordando i presenti indicativi gridati dal palco, in prima persona: «Io sono Giorgia, cristiana, madre, italiana».  Sarebbe arrivata quel giorno, insomma a sentire Rixi, insieme ai meme e ai video virali, la percezione che lei non era solo Giorgia, ma una pericolosa leadership alternativa a quella di Salvini.

Le scelte di tre anni fa

LaPresse / Vincenzo Livieri

La questione del “quando”, quando sia partita la volata di Meloni e di Fratelli d’Italia verso il governo, quando si sia dato per scontato che avrebbe vinto, con incertezza solo sul “quanto”, ha un rilievo politico non solo per la ricostruzione del profilo di leader della protagonista e della storia di quella particolare destra italiana, ma anche perché consente, ex post, di valutare i diversi gradi di lucidità degli altri.

E le conseguenze delle scelte più dirompenti compiute nella legislatura appena conclusa, in particolare in quel fatidico 2019 gialloverde e poi giallorosso, da tutti, osservatori compresi, unanimemente indicato come traumatico e decisivo per le sorti della successiva legislatura.

Il “quando” ridimensiona l’argomento – sottotesto fortissimo delle mosse di Salvini e molto in voga anche a sinistra – che le ragioni del successo elettorale di Meloni di oggi siano semplicemente nell’essersi tenuta lontana dal governo, in primis il governo Draghi. Secondo l’assunto che vince chi sta all’opposizione. Specie nel caso dei governi tecnici.

«Ho sempre saputo che per noi sarebbe stato più difficile arrivare al 5 per cento che passare dal 5 al 15 per cento», Meloni enfatizza così, nella sua autobiografia, quel successo. Aveva preso in considerazione anche di «fare altro nella vita» in caso di fallimento. «Basta fare i criceti nella ruota», scrive. Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia e fedelissimo della leader dai tempi dei congressi giovanili rincara la dose: «Lì ci siamo giocati tutto». Come dire non ora, il 25 settembre.

Potrebbe essere una sprezzatura, un inaspettato snobismo della vittoria, ma è anche una forma di realismo. E non solo per l’epica autoprodotta, stile Goscinny-Uderzo, il piccolo villaggio gallico che ha saputo resistere al cesarismo di Berlusconi e che si è ribellato alla scelta del mentore Gianfranco Fini di scolorire i contenuti della destra nella sua sfortunata creatura, Futuro e libertà, naufragata nel 2013 con lo 0,47 per cento. Ma anche per la consapevolezza che la rottura traumatica del governo gialloverde da parte di Salvini, il passaggio non al governo, ma all’opposizione, ha creato lo spazio per un’ascesa coltivata da tempo.

Le mosse di Salvini

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«Vorrebbe fare il ministro?» chiede alla leader di Fratelli d’italia Giovanni Minoli su La7 nel 2017. «Veramente vorrei fare il presidente del consiglio», ride senza scherzare. «Meloni dovrebbe fare un monumento a Salvini. Perché la verità è che è stata bravissima a stare ferma mentre il segretario della Lega faceva tutto da solo», osserva lo storico Giovanni Orsina che vede nella crisi della leadership salviniana le condizioni per la dimensione del successo di Fratelli d’Italia.

Secondo Orsina, autore di quello che è forse il più importante saggio sul berlusconismo (Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio), «l’elettorato di destra ha un suo formato standard, basico quanto ai contenuti, più o meno fuori gli immigrati e sinistra all’opposizione, disposto a votare chi ritenga credibile ed efficace come leader». Un elettorato che non ha avuto problemi a spostarsi da Berlusconi a Salvini e da Salvini a Meloni: «Il refrain che i moderati non voterebbero una destra destra si è rivelato falso», conclude.  

E in effetti si è visto nella scarsissima deterrenza della pregiudiziale antifascista, nella polemica poco feconda se non sui media internazionali sulla fiamma tricolore nel simbolo, nell’inefficacia dell’allarme democratico concentrato troppo a lungo sul Capitano che aveva sognato i pieni poteri e spostato troppo tardi sulla sua avversaria interna. Tutti quegli elementi che hanno rassicurato per molto tempo la sinistra sull’impossibilità di una vittoria tonda di Fratelli d’Italia.

«Nell’estate del 2019 Salvini era rimasto spiazzato dall’apertura del Pd ai Cinque stelle e dei Cinque stelle al Pd. Aveva creduto a Luigi Di Maio che andava dicendo, ancora a luglio, mai con quelli di Bibbiano, aveva creduto a Matteo Renzi. Quando capisce che le elezioni non ci saranno, che il governo giallorosso è in arrivo, fa marcia indietro arrivando a offrire la premiership allo stesso Di Maio. È lì che si rompe l’archetipo del Capitano», sostiene Luigi Di Gregorio, politologo di area centrodestra dell’università della Tuscia, già capo della comunicazione di Gianni Alemanno sindaco di Roma.

Più che lo strappo insomma fu il ripensamento. «L’estate del Papeete e la tentata e fallita retromarcia hanno fatto apparire Salvini improvvisamente perdente», ancora Orsina. L’insidia del pentimento si somma agli effetti, negativi dal punto di vista di Salvini, di quella sindrome da saturazione che contribuisce a consumare rapidamente le leadership. «Così è stato per Renzi, così per l’altro Matteo», sottolinea Di Gregorio.

Dal dominus alla domina

Le rilevazioni sostengono queste letture. La supermedia di Youtrend registra, a partire dal primo ottobre 2019, la salita dei consensi proseguita, senza inversioni di tendenza, fino ad oggi. E quindi rafforza la riemersione della centralità politica del 2019, anno anche elettoralmente intenso: oltre alle europee che consegnano alla Lega di governo il 34 per cento, ci sono regionali premianti per il centrodestra.

Il 19 ottobre del 2019 a Roma, allestito dalla Lega a piazza San Giovanni, c’è il grande palco del centrodestra ormai riunito all’opposizione del Conte bis. Una settimana dopo si vota in Umbria e la manifestazione è anche un po’ la chiusura della campagna elettorale. Vincerà il centrodestra con Donatella Tesei. In un reportage per Repubblica Gad Lerner scrive che «la piazza piena di ammiratori di Putin e delusi da Bergoglio» battezza la destra a trazione leghista: «Giorgia è la nuova beniamina della folla, ma sa bene che al governo potrà tornarci solo a rimorchio di Salvini». Il Fatto Quotidiano titola «Salvini incoronato a Roma sovrano del centrodestra».

Gli applausi hanno in realtà segnalato la preferenza per l’alleata/avversaria  in particolare nei passaggi più identitari: «Se non vi piace il crocifisso andatevene, il mondo è pieno di paesi islamici»; l’io sono Giorgia contro il politicamente corretto lgbtq+, il momento dell’apertura del tricolore sul podio. Contenuti intercambiabili con quelli offerti da Salvini, ma con qualcosa di più e di diverso che poi è la possibilità del nuovo.

Il messaggio politico che Meloni invia ai suoi alleati: il “patto anti inciucio” proposto a Berlusconi e a Salvini, mai al governo con il Pd e con i Cinque stelle, mai fuori dal perimetro della coalizione è inoltre un indiretto attacco al dominus del centrodestra che dal governo con Giuseppe Conte era appena uscito scottato.    

Rivista con gli occhi di oggi, nei timori retrospettivi dei dirigenti della Lega, quella piazza che celebrava Salvini, preannunciava già lo spostamento dell’elettorato, il successivo travaso di voti. Tutto all’interno della coalizione che alla fine, centrodestra o destracentro, ha più o meno lo stesso volume di sempre. Anzi questa volta qualcosa in meno come sottolineano gli analisti.      

«Salvini non si è reso conto al momento giusto che il pieno di voti la Lega lo aveva già fatto con il 20 per cento, il resto arrivava da una destra svuotata del consenso di Alleanza nazionale che al suo massimo, nel lontano 1996, aveva toccato il 15,4 per cento, ma che poi fino alla fusione nel Pdl aveva conservato le due cifre, spesso il 12 per cento», dicono insider della destra meloniana che preferiscono non essere citati per la «delicatezza della fase» e dei rapporti con la Lega ( governo da costruire, negoziati per le nomine ecc). Secondo queste voci, naturalmente di parte, l’elettorato di destra «non potrebbe mai essere troppo leghista». Salvini avrebbe colmato il vuoto di leadership lasciato dalla crisi di Fini, ma avrebbe «esagerato» con la trasformazione in “Dis, Destra Italiana di Salvini”, secondo l’espressione coniata da Ilvo Diamanti per definire la nuova profilatura che, con la crisi del Capitano, passa alla nuova offerta politica.

Il rebranding della leader

Photo Mauro Scrobogna /LaPresse

Un “rebranding” quello di Meloni sul centrodestra, direbbero gli esperti di marketing politico, completato dall’autobiografia del 2021 con la forza narrativa della storia personale.

Io sono Giorgia. Le mie radici le mie idee, esalta in 326 pagine, i tempi lunghi. Il nuovismo non deve somigliare in nessun modo all’antipolitica versione grillina, all’uno vale uno pentastellato. Meglio mostrare la distanza percorsa, il tempo passato da quando Gasparri la chiamava «piccola Evita».

La vita alla Garbatella, la famiglia abbandonata dal padre, il rapporto strettissimo con la sorella Arianna, la scelta della destra, del Fronte della gioventù in un contesto dove – scrive Meloni – essere di sinistra era più facile e più scontato: «Io sono di destra» è il manifesto personale e di appartenenza.

«Dedico questa notte di orgoglio e di riscatto, di lacrime e di abbracci a quelli che non ci sono più e che meritavano di esserci», ha dichiarato a una platea commossa Meloni che si sente a un passo da palazzo Chigi nella notte, ormai alba, della vittoria. In una voluta ambiguità sentimentale che ha mescolato le vittime di destra degli scontri degli anni Settanta e alcuni fedelissimi citati nel libro prematuramente scomparsi per malattia.

È un mondo chiuso nella sua storia generazionale e di parte, che ha il mito degli anni Settanta, che rilancia l’immagine minoritaria per far risaltare la vittoria e che più di tutto vuole essere diverso da Gianfranco Fini. Meloni gli deve parte della carriera, al netto dei congressi vinti nei movimenti giovanili, la vicepresidenza della camera, il ministero della Gioventù nel governo Berlusconi del 2008, ma somigliargli è precisamente quello che non vuole.

Al leader della fu Alleanza nazionale quella destra – «antropologica più che ideologica» (Orsina) – non perdona la subalternità alla sinistra, le aperture sui diritti, le convergenze sulla fecondazione assistita, l’ansia di farsi legittimare, di piacere a quel mondo che può definire la leader, con Francesco Merlo «reginetta di coattonia» e che tuttavia la ritiene funzionale al logoramento di Salvini, del trucismo come lo chiama Giuliano Ferrara. Così come aveva provato a utilizzare Fini contro Berlusconi.

Gestire la destra

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Meloni scommette sull’operazione contraria. Se lei è di destra, la destra deve essere sua e quindi caccia ai dirigenti ex e post dispersi sui territori. A Roma e nel Lazio dove la destra è tradizionalmente forte, piano piano riprende i pesi piccoli e medi che si erano spostati sulla Lega. Si muove a tutto campo, con pervicacia anche a prezzo degli scivoloni, vedi le opacità nostalgiche milanesi dell’inchiesta di Fanpage sui rapporti dell’europarlamentare FdI Carlo Fidanza e l’estrema destra dei saluti romani che non teme la parola fascista.

In Europa fa tutto sommato la stessa operazione identitaria. Si iscrive al gruppo dei Conservatori europei distinguendosi dalla Lega. Ha la stessa fascinazione leghista per Viktor Orbán, ma soprattutto per il Pis polacco. «La scelta di aderire a Ecr ha caratterizzato la leadership di Giorgia. È entrata in una famiglia politica, il che ha un valore», ci spiega Raffaele Fitto, l’europarlamentare pugliese di Fratelli d’Italia che ha facilitato questo avvicinamento. «È una rete di conservatori che ha legami con i Tories e con il Likud, con Vox». E comunque abbiamo votato Roberta Metsola che è del Ppe presidente del parlamento europeo, sottolinea implicitamente segnalando che Meloni non ha fatto l’errore di Salvini nel 2019, farsi isolare non votando Ursula von der Leyen, Ppe, alla testa della commissione europea.

La scommessa di Meloni è di saper pattinare sul ghiaccio delle amicizie pericolose. Di farne zoccolo identitario con i suoi per poi smussare e scegliere quello che è più compatibile con il profilo draghiano, europeista. Oggi meglio la Polonia dell’Ungheria.  
Ma era solo il 2019 quando Orbán andava a alla festa di Atreju e Francesco Pingitore faceva cantare in suo onore I ragazzi di Buda.

L’anno delle occasioni e degli errori, dei tempi giusti e di quelli sbagliati. Dei nemici sopravvalutati e di quelli sottovalutati. Aspettando Giorgia alla prova di governo, varrebbe forse la pena per gli sconfitti di ripercorrerlo tutto il 2019, di lasciarsi tentare da un esperimento controfattuale e valutare oggi il consiglio di allora di Emanuele Macaluso al Pd: che forse era meglio votare.

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