La nottata non ha portato consiglio. La mattina dopo la batosta che il Movimento 5 stelle ha subito alle europee nel partito di Giuseppe Conte ci si interroga sul futuro: le previsioni più pessimistiche davano il M5s intorno all’11-12 per cento, ma tutti erano consapevoli del fatto che sotto il 10 sarebbe stata una débâcle. E invece l’ex premier è stato punito nel peggiore dei modi dall’astensionismo nelle regioni che sperava gli avrebbero garantito il consenso necessario a restare rilevante sul piano nazionale. 

Ora che il Movimento si ferma sotto la soglia fatidica, a poche incollature da Forza Italia di cui sente il fiato sul collo e lontanissimo dal Pd di Elly Schlein che aveva ambito a sfidare per la guida del campo progressista, Conte è in mezzo a due fuochi. Da un lato non può più sperare che i suoi capricci all’interno della coalizione siano assecondati dalla segretaria dem, dall’altro rischia di dover gestire gruppi parlamentari che a questo punto possono diventare ingovernabili. 

Dopo due anni di quiescenza, deputati e senatori scalpitavano già durante la campagna elettorale: in tanti ora tacciano l’ex premier di arroganza per aver scommesso tutto sulle regioni meridionali, arrivando a mandare i video dei suoi comizi ai cinema al nord, invece di presentarsi di persona. «Al nord lo zoccolo duro continua a votare, l’elettorato al sud è meno fidelizzato». E si è visto, con appena il 43,69 per cento di affluenza, quasi sette punti sotto il dato nazionale, che Conte non è riuscito a mobilitare l’elettorato pentastellato al meridione, dove risulta essere primo partito il Pd. Il crollo verticale al nord era preannunciato, nel nord-ovest il Movimento è addirittura dietro ad Avs. 

Mancanza di prospettiva

Conte, da parte sua, non ha dato una prospettiva futura nella sua dichiarazione notturna ai giornalisti, un fatto che non è passato inosservato nel partito. «I giudizi dei cittadini sono insindacabili. Avvieremo una riflessione interna per capire le ragioni di un risultato che non è quello che ci aspettavamo» ha detto l’ex premier alla sede di via di Campo Marzio. «Una volta almeno parlava di riorganizzazione quando le cose andavano male» dice una persona che conosce bene il M5s. Effettivamente, il lavoro sulla struttura del partito, che fosse quella sul territorio oppure quella tematica, è un grande classico del repertorio contiano. Stavolta, nulla di tutto ciò. 

Anzi, l’avvocato del popolo non ha saputo nemmeno indicare quale sarà la collocazione dei parlamentari europei che andranno a Bruxelles. Sono buone le situazioni di Carolina Morace, Gaetano Pedullà e Giuseppe Antoci, addirittura già eletto Pasquale Tridico al sud. Il rischio è che, a seconda del gruppo in cui si potrebbe piazzare il Movimento, i candidati eletti decidano addirittura di lasciarlo, come è già successo all’ultima tornata elettorale. Difficile immaginare Tridico sedere nelle stesse file di Sahra Wagenknecht, la rossobruna ex stella della Linke tedesca, a cui ultimamente veniva attribuito un certo interesse per i voti pentastellati. 

A questo punto c’è addirittura chi immagina che Conte – mai simile come stanotte al sé stesso del 2018, quando ancora veniva tirato via per la giacca dalle dichiarazioni ai giornalisti dal suo portavoce Rocco Casalino – sia giunto al capolinea. Soprattutto i “secondi mandati”, quei parlamentari che avrebbero esaurito con quello in corso gli incarichi che si possono ricoprire secondo le regole del Movimento, sono insofferenti da tempo. Quelli settentrionali per lo più sono molto irritati dalla gestione della campagna elettorale: il malcontento (che per esempio aveva già espresso in un post il capogruppo al Senato Stefano Patuanelli) potrebbe essere lenito da una revisione del vincolo dei due mandati. Ma non è da escludere che un’altra figura carismatica del Movimento – Chiara Appendino, lo stesso Patuanelli o addirittura Virginia Raggi – possa decidere di sfidare apertamente la gestione di Conte. Magari con il sostegno del fondatore Beppe Grillo. 

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