Alla fine la montagna ha partorito il topolino. Mercoledì pomeriggio, in una rapida riunione del comitato costituente del Pd, il segretario del Pd Enrico Letta ha presentato una bozza della nuova carta dei valori che sostituisce in blocco – dunque non solo emenda – quella veltroniana del 2008. Letta ha invitato i componenti del comitato a fare le loro osservazioni, ma ha chiesto mandato per la stesura finale: la farà lui con Roberto Speranza (sono i due garanti del comitato) «sentendo i quattro candidati» per arrivare a una formulazione condivisa che sarà presentata sabato all’assemblea nazionale.

Ma il punto, lo vedremo subito, non è la formulazione, ormai sterilizzata, che alla fine attira giudizio tipo «un buon compromesso», dall’ala sinistra, e «un compromesso decente», dall’ala riformista. 

Nel corso della breve discussione, Carlo Trigilia, uno dei saggi, ha di nuovo avanzato la richiesta di inserire nel testo il superamento delle primarie. Tema che però avrebbe riaperto il conflitto interno. Ma soprattutto che avrebbe esposto il Pd al paradosso di convocare il suo popolo per le primarie annunciando contemporaneamente la sfiducia verso questo istituto.

Il punto dolente resta l’approvazione da parte dell’assemblea nazionale: i riformisti hanno ribadito, prima per voce del costituzionalista Stefano Ceccanti, poi in coro, che quella sede non è legittimata a sottoscrivere un cambio di carta dei valori, che sia un cambio radicale o meno. D’altro canto Art.1 considera conditio sine qua non l’approvazione del testo che farebbe, almeno sulla carta, del futuro Pd un “nuovo Pd”. Ora sta a Letta trovare una soluzione che faccia contenti gli uni e gli altri. O non troppo scontenti. L’ipotesi che circola è che alla fine venga votato «con riserva», e poi ratificato dalla futura assemblea, quella eletta dalle primarie. C’è anche un’ipotesi molto più fantasiosa e che trova meno conferme: che venga approvata, ma che affianchi, senza archiviarlo, il manifesto delle origini.

Un leggero filo di rosso

Sui contenuti intanto Letta ce l’ha fatta. Lasciando cadere le fantasie di ripensamento del modello economico «neoliberista» e gli attacchi all’«ordoliberismo» avanzate da qualche componente gauchiste, e che al principio avevano fatto scatenare un fuoco di fila dei riformisti, che però nel comitato sono in minoranza schiacciante.

Il segretario  ha svolto un paziente lavoro diplomatico,  annacquando e sterilizzando i concetti più divisivi, lisciando un po’ il pelo alla sinistra e dando la possibilità agli altri di apprezzare lo scampato pericolo di una rivoluzione radicale.

Il titolo della bozza è «Filo rosso». Ed è anche l’unica cosa «rossa» del testo. Che per il resto enuncia concetti generali difficilmente contestabili da una parte e dall’altra. La democrazia, vi si legge, è «un orizzonte di emancipazione e di libertà. Una promessa di giustizia sociale, inclusione e uguaglianza da realizzare attraverso un impegno collettivo». Il compito del Pd è «difendere la Costituzione», «valorizzare la cultura antifascista da cui nasce» e impegno per una sua «compiuta applicazione». «Disuguaglianze, povertà, discriminazioni e marginalità sociali» sono «il più grande impedimento a ogni forma di coinvolgimento collettivo e di emancipazione».

Viene citato l’Art.1 della Costituzione, con chiose sul lavoro dignitoso come strumento di partecipazione alla società; e più che un omaggio all’omonimo partito che rientra nel Pd, quello di Speranza&Co, è un atto dovuto. Si passa per la crisi climatica globale e per lo sviluppo sostenibile, per la «promozione dei beni comuni» fino ad approdare –  qui c’è una concessione a sinistra – al concetto di «intervento pubblico» e di «Stato regolatore» che corregge «i fallimenti di mercato». E ancora: non si accettano – le disuguaglianze e discriminazioni sistemiche (e mancherebbe), a partire da quelle di genere e territoriali. Si citano donne e sud. Non c’è la parola «crescita» – termine chiave per i riformisti –  ma si professa la necessità di «un’economia forte» per creare «benessere condiviso». Welfare, pari opportunità, scuola e sanità pubbliche «sono i pilastri di un modello sociale che mette al centro la persona»: espressione che piacerà ai cattolici democratici, se si accontentano s’intende. 

Si vota ma anche no

«Il lavoro è in fieri», fa sapere Letta. Ma le distanze che restano marcate sono procedurali. Per questo il segretario in queste ore consulta i quattro candidati Paola De Micheli, Stefano Bonaccini, Elly Schlein e Gianni Cuperlo (il quinto, l’economista Antonio Guizzetti, non ha ancora la certezza di raccogliere le firme necessarie).

Bonaccini fin qui si è tenuto alla larga dalle zuffe sulle regole, ma i suoi sono schierati per consegnare il voto del nuovo documento alla nuova assemblea, considerando illegittimo che ad approvarlo sia quella uscente, ancorché denominata «costituente», eletta cinque anni fa. La pensa come loro De Micheli. La pensa invece al contrario l’area che sostiene Schlein, pronta a capitalizzare l’ingresso degli iscritti di Art.1. «Non è questione di capitalizzare voti», spiega Peppe Provenzano, «è questione di rispettare lo statuto. Abbiamo appena approvato una modifica che ci obbliga a votare la nuova Carta dei valori in questa assemblea». Il riferimento è al (nuovo) articolo 55.2.3. Che recita: «La prima fase del percorso costituente dovrà avere termine entro il 22 gennaio 2023, con l’approvazione del Manifesto dei valori e dei principi da parte dell’Assemblea costituente nazionale aperta agli aderenti al percorso costituente in una percentuale pari al 20% dei componenti, secondo criteri approvati dalla Direzione nazionale del Pd, e con l’indizione del Congresso nazionale costituente e l’approvazione del Regolamento per il Congresso». 

Poca voglia di litigare

Una soluzione arriverà. Anche perché i sostenitori di Bonaccini hanno il mandato di resistere al voto, ma sanno anche che il loro candidato non ha intenzione di perdere tempo in liti regolamentari, certo che non appassionino gli elettori e anzi rischino di allontanarli dai gazebo. Che è la preoccupazione di fondo di tutti: la convinzione generale è che se alle primarie aperte del 26 febbraio non arriverà almeno un milione di voti, sarà difficile non parlare di flop. E sarebbe un flop che finirebbe per azzoppare da subito il vincitore, o la vincitrice. 

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