Nascondere la povertà di idee dietro un’esibizione magniloquente di virtù è un vecchio trucco della politica: ma diventa disonestà intellettuale quando si discute di una tragedia. Nel dibattito al Senato sull’invio di armi all’Ucraina un vasto schieramento trasversale (dai Cinque stelle alla Lega, da Forza Italia a Sinistra e Verdi) ha ribadito in varia forma che occorre un negoziato. Di più: una conferenza di pace.

L’affermazione ha pregnanza pari a “siamo favorevoli alla pennicillina” o “avversiamo i maremoti”, però contiene una parola rassicurante, “pace”, e sottrae alla scomodità di misurarsi con la questione dirimente: a quali condizioni può entrare in vigore un cessate il fuoco che non svapori in poche settimane, come i nove precedenti cessate il fuoco firmati da Mosca e da Kiev tra il 2014 e il 2020. Poiché le opzioni possibili sono grossomodo chiare sarebbe onesto se in Italia partiti e correnti discutessero finalmente di questo. Capiremmo quale cultura politica, quali valori, quali predisposizioni formino concretamente la loro identità. Chi sta con chi, se vogliamo.

La proposta russa

In this handout photo taken from video released by Russian Defense Ministry Press Service on Sunday, Dec. 18, 2022, Russian Defense Minister Sergei Shoigu looks through a military helicopter's window as he inspects Russian troops at an undisclosed location in Ukraine. (Russian Defense Ministry Press Service via AP)

Basterebbe che tutti si esprimessero sulla proposta russa: pace in cambio di territori. Nella versione ufficiale, esuberante, richiede a Kiev e agli occidentali di riconoscere la sovranità di Mosca sulle province che la Duma si è annessa, cioè un’area perfino più ampia dello spazio che l’esercito di Putin controlla effettivamente. Ma questa ovviamente è la posizione negoziale.

Probabilmente la Russia accetterebbe la fine delle ostilità se potesse ottenere in cambio il riconoscimento internazionale della propria definitiva sovranità sulla Crimea e su almeno parte del Donbass. Ma occorrerebbe innanzitutto l’avallo di Kiev, che lo rifiuta recisamente. In estate, dopo un paio di controffensive coronate da successo Zelensky ha promesso che i suoi soldati cacceranno i russi dai territori che quelli attualmente occupano. Quando e come questo avverrà, non è stato detto.

All’inizio del conflitto Zelensky era assai più prudente. Il suo obiettivo pareva essere: i russi fuori dall’Ucraina e l’Ucraina formalmente dentro i confini del 1991 ma nessuna decisione sullo status definitivo dei territori che Mosca attualmente occupa. Quelle regioni potrebbero essere consegnate ad una forza multinazionale, con mandato e composizione concordate dai belligeranti. La Cina parteciperebbe con un suo contingente alla forza multinazionale, e con quello entrerebbe, per la prima volta nella sua storia millenaria, in Europa.

Va da sé che una nazione dai confini irrisolti non sarebbe nelle condizioni di essere ammessa nell’Alleanza atlantica (e forse non lo sarebbe neppure in un lontano futuro, se l’assetto finale dell’Ucraina fosse quello di una confederazione tra Kiev e i territori russo-parlanti, e se uno solo di questi decidesse di porre il veto).

Numerosi ma nascosti

Svetlana Shornik stands next to the grave of her 53-year-old ex-husband, Oleh Shornik, on the outskirts Kherson, Ukraine, on Sunday, Nov. 20, 2022. Oleh Shornik was among 20 civilian volunteers of Ukraine’s Territorial Defense Forces killed by Russian troops in March in the southern city before it fell to Moscow. Russia held it for eight months before retreating in November. (AP Photo/Bernat Armangue)

I favorevoli allo scambio “pace per territori” ventilato da Mosca sembrano in Italia molto più numerosi di quanto appaia. Esitano a manifestarsi, essendo impudica l’idea di premiare Putin. Ma molti di loro non hanno mai nascosto, per esempio, di considerare la Crimea come parte integrante della Russia. La penisola sarebbe addirittura ‘sacra’ alla popolazione russa, per via di battaglie e mitologie guerresche tatuate nella memoria collettiva. Sarebbe invece irrilevante che una parte degli abitanti, i Tatari, semmai legga in Mosca l’oppressore storico, soprattutto per via delle mostruose deportazioni zariste e staliniane che nel corso di due secoli hanno cambiato la demografia della penisola.

Radicato tanto a sinistra quanto a destra, da berlusconiani a cultori di una geopolitica de’ noantri, questo modo di pensare ritiene che i confini o la legalità internazionale possano nulla contro le forze tettoniche della storia, o più esattamente della storia che costoro si raccontano.

Similmente Putin afferma che non solo la Crimea, ma la stessa Ucraina è sempre stata storicamente russa, come peraltro risultava a Mosca già nel 1876, quando l’editto di Ems proibì libri e rappresentazione teatrali in ucraino, considerato non una lingua ma un dialetto russo. Altre possibili applicazioni della sovranità dedotta dalla storia: infinite. l’Austria potrebbe annettersi il sud Tirolo, l’Italia l’Istria, l’Ungheria pezzi dei paesi confinanti (a Orbán piace giocherellare con le mappe), ancora la Russia aree del Baltico e della Finlandia, e così via.

Consequenzialismo

Svetlana Shornik stands next to the grave of her 53-year-old ex-husband, Oleh Shornik, on the outskirts Kherson, Ukraine, on Sunday, Nov. 20, 2022. Oleh Shornik was among 20 civilian volunteers of Ukraine’s Territorial Defense Forces killed by Russian troops in March in the southern city before it fell to Moscow. Russia held it for eight months before retreating in November. (AP Photo/Bernat Armangue)

All’idea di uno scambio “territori per pace” si può arrivare attraverso una via diversa e non rozza. La tentano in particolare gli intellettuali cattolici che implicitamente si rifanno all’opposizione definita dalla filosofia anglosassone come deontology versus consequentialism, ovvero un’etica fondata sulla corrispondenza formale delle azioni ai principi contro un’etica che ragiona nei termini di “quali conseguenze produco se faccio questo”.

Dal punto di vista consequenzialista la scelta deontology – rifiutare lo scambio “pace in cambio di territori” perché premiando una guerra di conquista si abrogherebbe un principio cardinale della legalità internazionale – suona come il kantiano «fiat iustitia pereat mundus», sia fatta giustizia quali che siano le conseguenze per il mondo.

In questo caso le conseguenze, si argomenta, sarebbe un’escalation militare esposta ad esiti spaventosi, perfino ad un conflitto nucleare. Il problema è che le conseguenze della scelta opposta non si annunciano meno inquietanti. Se ottenesse la Crimea Putin sarebbe incoraggiato ad annettersi territori russofoni che già occupa in Georgia e in Moldovia, e altri stati potrebbero imitarlo in Asia e in Africa.

Inoltre perfino se la gran parte dei paesi Nato le negassero aiuti militari, Kiev non accetterebbe la presenza di truppe russe sul suo suolo e continuerebbe a combattere, fosse pure con la guerriglia. L’Europa si troverebbe una ferita purulenta sul suo fianco orientale, uno di quei Territori occupati che restano per decenni fonte di instabilità e di scontri armati. La guerra cambierebbe corso ma non finirebbe.

Putin ora sa di non avere le carte per vincere ma ha puntato su scommesse che potrebbero ancora evitargli di dover spiegare ai russi che decine di migliaia di loro sono morti invano. L’Europa potrebbe sfaldarsi, le sanzioni potrebbero essere aggirate con crescente facilità, la superiorità numerica delle truppe russe potrebbe alla fine assicurare qualche modesto successo, soprattutto se Mosca riuscisse a ruotare i soldati al fronte per effetto di un (improbabile) cessate-il-fuoco senza condizioni. Se l’economia non va a rotoli, una guerra di lunga durata, sia pure inconcludente, sembra essere per Putin il male minore.

Una guerra “razionale”

Per capirlo occorre tenere a mente la tesi della russologa di Princeton Ekaterina Pravilova: nella sua apparente insensatezza l’attacco all’Ucraina rivela la stessa razionalità delle guerre contro gli ottomani lanciati dagli zar due secoli fa. Straordinarie similitudini. In entrambe le vicende il sovrano si propone come salvatore di popolazioni oppresse da un nemico feroce («Al posto dei barbari turchi ora compaiono i nazisti ucraini») e profitta della guerra per restringere ulteriormente i diritti dei suoi sudditi.

È la Guerra dell’Autocrate. Che ha bisogno di un conflitto perché con il protrarsi della pace il suo potere assoluto perde legittimazione (ogni zar Romanov scatenò almeno una guerra, e la utilizzò «per liberarsi di importuni riformatori, consolidare il consenso, scuotere l’establishment e rinvigorire il carattere assoluto dell’autorità dello zar»).

Quel conflitto somiglierà ad uno scontro tra civiltà: alle spalle del nemico deve palesarsi un occidente aggressivo, presenza necessaria perché l’Autocrate possa screditare i riformatori filo-occidentali che insidiano il suo assolutismo (secondo la Pravilova, Mosca contestualizzò anche la guerra ai Turchi del 1877-78 in termini anti-occidentali).

Errori da evitare

Se l’avversione di Putin all’occidente è strumentale non saranno concessioni territoriali a placarla. Prima o poi l’Autocrate avrà nuovamente necessità di un conflitto per ricacciare indietro il nemico implacabile che preme dalle frontiere occidentali: un desiderio di democrazia, un anelito di libertà, ben più insidiosi delle futili provocazioni abbozzate goffamente dalla Nato.

Se questo è vero, allora sono tre gli errori da evitare. Innanzitutto sarebbe ingiusto e controproducente isolare dall’Europa la società russa, in particolare le sue istituzioni culturali, lì dove potrebbe strutturarsi un sano antinazionalismo. In secondo luogo i governi occidentali farebbero bene ad evitare di lanciare anatemi contro Putin, dato che proprio un’esuberante animosità lo confermerebbe nel ruolo che l’Autocrate preferisce. Per esempio sarebbe ingenuo minacciare di sottometterlo ad un Tribunale internazionale ad hoc.

Al di là del fatto che tribunali di questo tipo sono allestiti dai vincitori a guerra conclusa, mai durante un conflitto in corso, quando potrebbe esser necessario negoziare, sarebbe più utile far capire al nuovo zar che i regimi autocratici di guerra vivono ma di guerra periscono. Immaginato dal governo russo come «una piccola guerra vittoriosa necessaria a contenere la rivoluzione», il catastrofico conflitto con il Giappone  contribuì alla rivoluzione del 1905, a sua volta prodromo della rivoluzione del 1917 e dell’immondo massacro col quale un anno dopo i bolscevichi spensero dopo tre secoli la dinastia degli zar Romanov.

Infine: il soft-power che ancora permette all’occidente di trovare interlocutori nella società russa, e in genere nelle società non-occidentali, deriva per gran parte dalla coerenza con la quale gli stati di diritto liberali proteggono principi e libertà, se è il caso correggendo le proprie mancanze e vergognandosene. Invece un atlantismo stentoreo ora pretende che ogni ammissione di colpa sia sbagliata e perdente, perché gli altri comunque fan peggio. Dovremmo essere più condiscendenti verso le espressioni più discutibili della nostra “civiltà”? Sembra un ragionamento in puro stile putiniano.

© Riproduzione riservata