Il testo qui di seguito è un estratto del libro di Marco Cecchini dal titolo Un anno da Draghi. La metamorfosi di un banchiere, edito da Fazi editore, 2022. Nel 2020 Cecchini ha pubblicato un altro libro sull’attuale presidente del Consiglio dal titolo L’enigma Draghi con la prefazione di Giuliano Amato.


«Spesso mi chiedono: “Come pensi di farcela?”. Beh, insomma, abbastanza spesso ce l’ho fatta io, e stavolta ce la farà il governo», Mario Draghi.

In una scena del film di Quentin Tarantino Pulp Fiction il personaggio interpretato da Harvey Keitel si presenta così: «Sono Mr. Wolf. Risolvo problemi». Per una bizzarria del destino nella sua lunga carriera Draghi è stato chiamato a risolvere i problemi di istituzioni che stavano vivendo il loro momento più turbolento. È stato anche lui un risolutore: «Mr. Fix it», l’aggiusta tutto, l’ha definito il New Yok Times facendo un bilancio dei suoi primi mesi di governo.

Nel 1992, fresco direttore generale del Tesoro, si ritrovò nella mischia di una tra le peggiori crisi della lira e dei titoli di Stato che contribuì a risolvere avviando il secondo programma di privatizzazioni al mondo. Diventato governatore della Banca d’Italia nel 2006 aveva dovuto risollevare un istituto sotto shock, travagliato da inchieste giudiziarie e scandali bancari che avevano coinvolto in prima persona il suo numero uno Antonio Fazio.

Lasciata la Banca d’Italia e trasferitosi alla Bce, nel 2012 ha affrontato la crisi che poteva far saltare l’euro insieme al progetto europeo e l’ha scongiurata con una dichiarazione di tre parole passata alla storia.

Non meraviglia quindi che, anche oggi che è chiamato a risolvere i problemi del suo paese, a domanda sul punto risponda così: «In varie occasioni della mia vita mi hanno chiesto: “Come pensi di farcela?”. Beh, insomma, abbastanza spesso ce l’ho fatta io, e stavolta ce la farà il governo. Occorre avere fiducia nel Parlamento più che guardare al Parlamento per la sua diversità di opinioni come a un ostacolo».

Ce la farà anche questa volta? Per ora si può osservare che in questi mesi a Palazzo Chigi l’ex presidente della Bce è stato qualcosa di più di un tecnocrate che risolve problemi. La posta in gioco questa volta non è come in altre occasioni del passato fuoriuscire da una crisi finanziaria, ma cogliere l’opportunità storica offerta dal Ngeu in una congiuntura irripetibile.

L’Italia è a un bivio. Draghi è diventato, piaccia o no, colui che garantisce la sua radicale trasformazione di fronte all’Europa e ai mercati. È diventato uno statista.

Non solo, se si allunga lo sguardo oltre i confini nazionali, l’ex presidente della Bce appare proprio per questo al centro di un big game geopolitico, in cui il suo successo o il suo fallimento possono rappresentare l’avanzamento o il ritracciamento del processo di integrazione europea: una partita sotterranea, questa, che vede in campo attori globali interessati all’uno o all’altro esito. 

Su Mario Draghi grava dunque una responsabilità che forse è ancora più impegnativa del salvataggio dell’euro e non si assolve con un whatever it takes. È una responsabilità che non era nei suoi piani. Lasciata la Bce la sua destinazione naturale, forse la sua segreta ambizione, era salire al Quirinale alla scadenza di Sergio Mattarella.

La pandemia ne ha fatto il lender of last resort non eletto del paese, aprendo il vaso di Pandora sul suo ruolo nelle istituzioni. Presidente della Repubblica? Presidente semipresidenzialista de facto? Premier fino alle elezioni del marzo 2023? E anche dopo? 

Non è chiaro quanto il sistema politico e la pubblica opinione abbiano piena consapevolezza della posta in gioco. Arrivati i vaccini, nell’illusione che la pandemia fosse sulla via del tramonto, i partiti sembrano tornati alle logiche di corto respiro del passato. Il loro desiderio di tornare al governo del paese è legittimo.

Ma la realtà dei numeri sembra dire che l’Italia non può ancora prescindere dal banchiere fattosi statista. Il nostro paese non solo assorbe la quota maggiore di risorse messe a disposizione dall’Europa, ma è anche ricorso più di tutti alla componente rappresentata da prestiti: 122 miliardi pari a oltre la metà del totale includendo i contributi a fondo perduto.

Nessun grande partner europeo ha preso un euro a debito, né la Germania, né la Francia, né la Spagna, tutti hanno attinto alle sole sovvenzioni. Non a caso le concessioni fatte all’Italia nella primavera drammatica del 2020 sono state oggetto di un acceso dibattito a Bruxelles che ha visto i paesi così detti “frugali” fortemente contrari.

Il successo del Recovery Plan italiano è perciò di vitale importanza, non solo per la posizione finanziaria di Bruxelles, ma perché esso si rifletterà sul bilancio finale del Ngeu e sulla possibilità di estenderne la durata oltre il 2026 (Germania e frugali permettendo) nel quadro di un ammorbidimento complessivo delle regole europee auspicato da molti.

La situazione politica italiana sarà dunque oggetto di un minuzioso e costante monitoraggio nei prossimi mesi ed anni. L’Europa ha bisogno di Draghi. Draghi ha bisogno dell’Europa.

Prima o poi la bonanza dei soldi facili finirà e solo la crescita assicurata da un uso efficiente delle risorse nell’ambito di un Piano ben attuato potrà evitare che l’Italia torni ad essere soggetta al severo scrutinio dei mercati. Nell’ottimismo generale, causato anche da frasi come «I soldi non si prendono, si danno», l’opinione pubblica ha dimenticato che a causa di questa incertezza politica prospettica, lo spread italiano viaggia, nonostante l’ex presidente della Bce, intorno al doppio di quello spagnolo e portoghese e al triplo di quello francese.

Il Paese corre sul filo. Nel frattempo le potenze del capitalismo autoritario orientale, Russia e Cina, osservano con peloso interesse quello che sta accadendo in Italia e vedono con favore non solo chi come i Morawiecki e gli Orban soffia sul fuoco delle divisioni nella Ue ma anche chi alimenta la tensione nel nostro Paese dall’interno.

La presenza di Draghi ai vertici dello Stato è auspicata dai partner europei e dai mercati come un elemento di stabilità e garanzia. L’ipotesi a lungo gettonata di un prolungamento del mandato di Mattarella e di sue possibili dimissioni dopo le elezioni politiche generali del marzo 2023 che assicurerebbe la continuità dell’azione di governo e l’eventuale nomina del premier al Colle tra poco più di un anno si direbbe sfumata per l’indisponibilità dello stesso Capo dello Stato.

Secondo la maggioranza dei costituzionalisti sarebbe l’esito più corretto perché il futuro inquilino del Quirinale sarebbe scelto dal nuovo Parlamento eletto con le regole della riforma 2020, anche se c’è chi dubita dell’opportunità di una replica di quanto avvenuto nel 2013 con Giorgio Napolitano.

Nella ridda delle ipotesi è circolata anche quella di una presidenza affidata a una personalità di alto profilo istituzionale e consolidata proiezione internazionale, la cui sintonia con il premier sia acclarata. La nomina di Draghi al Colle rassicurerebbe invece l’Europa per sette anni ma aprirebbe un problema sul nome del suo sostituto a Palazzo Chigi e della relativa maggioranza destinata a sostenerlo.

Secondo Carlo Cottarelli la frase «sibillina» pronunciata dal premier nel suo discorso di insediamento («La qualità di un governo non si giudica dalla sua durata») insieme al silenzio a lungo mantenuto sulle sue intenzioni, sarebbero due indizi dell’aspirazione di Draghi al Quirinale.

Un rompicapo insomma. Per quanto remota possa oggi apparire, non andrebbe poi esclusa dagli scenari a medio termine per completezza di analisi, l’ipotesi di una volontaria uscita di scena del premier. Draghi non è uomo da tirarsi indietro lasciando incompiuta una missione: non l’ha mai fatto. 

Tuttavia, qualora le divisioni e l’ostruzionismo delle forze politiche all’attuazione di un impegno preso con l’Europa come il Pnrr dovessero diventare insostenibili, non si può omettere a priori dal campo delle possibilità l’arma delle dimissioni in suo possesso.

Secondo una ricostruzione del Foglio (Carmelo Caruso, 1 ottobre 2021) articoli, congetture e interviste che hanno alimentato quello che giornalisticamente va sotto il nome di Totoquirinale hanno profondamente irritato Draghi.

In conferenza stampa le domande sul tema lo hanno rabbuiato, le risposte sono state liquidatorie. Ha giudicato «offensivo» per il Presidente in carica trascinare il suo nome in queste congetture. Lo ha contrariato l’idea che una sua eventuale successione a Mattarella fosse trattata alla stregua di un «trasloco». 

AP

Undici mesi di governo Draghi hanno sollevato poi la questione del semipresidenzialismo strisciante che il premier incarnerebbe con un eventuale passaggio al Colle. «Draghi come De Gaulle» ha scritto Ernesto Galli della Loggia sulle colonne del Corriere della Sera, aprendo un dibattito che ha fatto rumore.

Il numero due della Lega, Giorgetti, ha prefigurato addirittura un passaggio di Draghi al Quirinale, da dove «potrebbe continuare a guidare il convoglio del governo nell’ambito di un semipresidenzialismo di fatto».

Una dichiarazione che gli esperti non hanno saputo se definire ingenua (il semipresidenzialismo di fatto non si annuncia, si pratica) o totalmente fuori luogo e ha lasciato interdetto lo stesso premier. Questa discussione sul semipresidenzialismo non è piaciuta a Draghi.

L’inquilino di Palazzo Chigi considera «infondato» il paragone con De Gaulle perché «non si diventa una Repubblica presidenziale per via editoriale» e non intende dedicare tempo a decrittare questo dibattito.

Si potrebbe obiettare come sia curioso che commentatori politici che hanno spesso lamentato l’incapacità dei governi italiani di operare scelte nette, talvolta dolorose ma necessarie, si trovino in disaccordo quando un esecutivo nato dal collasso del sistema politico per volontà del Presidente della Repubblica fa scelte nette dettate da un accordo europeo da tutti sottoscritto.

Come scrive Carlo Bastasin (la Repubblica, 13 settembre 2021) «nel processo i attuazione del Pnrr la Presidenza del Consiglio avrà un ruolo centrale mentre quello del Parlamento sarà marginale. Governo e Parlamento dovranno rispettare un cronoprogramma nel quale quasi tutto è già deciso nelle forme e nella tempistica dell’azione governativa».

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