Un uomo in pigiama sdraiato a letto litiga con la sveglia e il desiderio di continuare a dormire. Poi si alza, calpesta la sveglia, torna a sedersi sul letto e preme il pulsante di quella che sembra essere una radio. Dall’altoparlante una voce di donna dice «Buongiorno», e l’uomo risponde «Buongiorno una sega».

La breve scena viene dal film Madonna che silenzio c’è stasera di e con Francesco Nuti. Nel corso degli anni ho inviato questo estratto innumerevoli volte ad amici, cari e congiunti. L’ho postato sui più vari social, l’ho pensato tra me e me quando non avevo modo di raccontarlo o condividerlo.

Ironia della sorte

Francesco Nuti (classe 1955, attore, regista, sceneggiatore, cantante) è morto il 12 giugno 2023, dopo essere stato a lungo lontano dalle scene in seguito a un grave incidente avvenuto nel 2006. Rivedendo Madonna che silenzio c’è stasera, storia quasi picaresca della giornata di un giovane disoccupato alla ricerca di lavoro operaio in una Toscana surreale, alcune scene colpiscono particolarmente. Ad esempio quando la madre dal piglio ossessivo di Francesco (protagonista omonimo di Nuti) cerca di convincerlo a tornare a vivere con lei. Gli dice che quando vede la sua stanzetta le viene quasi da pensare che sia morto. Francesco allora le risponde «e invece non sono morto, sono vivo e da solo».

Francesco Nuti è morto nello stesso giorno di Silvio Berlusconi, il quale, nelle ultime ore, non ha fatto che ricevere onori e lutti nazionali, in perfetta coerenza con il sentimento di un paese che di fatto non ha mai davvero voluto vederlo scendere dalla ribalta. Potremmo chiamare questa vicenda ironia della sorte, ma opterò per non chiamarla affatto.

Leggende

Rievocherò invece una specie di leggenda contemporanea, non so in essa quanto fondamento di verità ci sia. Ignoro quando e da chi la abbia sentita, so solo che è passato molto tempo. Riguardava il più celebre tra gli spot elettorali di Berlusconi. Quello della discesa in campo, il cui incipit possiamo quasi tutti ripetere a memoria se solo chiudiamo gli occhi (ma in effetti anche se li teniamo aperti): «L’Italia è il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti…».

La leggenda narrava che se solo avessimo allargato l’inquadratura oltre il perimetro della scrivania presso cui il Cavaliere stava seduto nella posa iconica, avremmo visto che questa se ne stava piantata nel mezzo di un cantiere in costruzione. Non in un ufficio di lusso, ma al centro di qualcosa in divenire che aveva però anche i tratti estetici dell’apocalisse. Non credo che questa storia sia vera, e non è così importante che lo sia.

Fornisce però l’occasione di giocare con una forma di crossover quasi blasfemo: «Sul versante opposto della valle la strada attraversava un terreno incendiato nero e spoglio. Tronchi carbonizzati e senza rami che si susseguivano a perdita d’occhio. Cenere che aleggiava sopra la strada e grappoli di cavi ciechi che penzolavano dai pali della luce anneriti gemendo piano nel vento. Al centro di ogni cosa: Silvio Berlusconi».

Fino al corsivo (che, inutile specificare, è una mia licenza) queste righe sono estratte da La strada (Einaudi, 2006) di Cormac McCarthy. È morto anche lui, il 13 giugno, così come nello stesso giorno è deceduta Flavia Franzoni, moglie di Romano Prodi. Morire è normale, talvolta è normale pure che molte persone note muoiano nello stesso periodo.

In molti ricorderanno senz’altro le morti illustri del 2016, un anno in cui da David Bowie a Prince, da Umberto Eco a George Michael parevano non finire più. Al di là della coincidenza cronologica, colpiva quel cortocircuito mentale che ha iniziato a far invocare la fine del 2016. Finisci adesso, si diceva: presto, per pietà. Come se terminato quell’anno sarebbe finita la morte. Non era così, perché morire è normale, e normale è il dolore. Lo è anche se riservato a persone mai davvero conosciute, se a queste ci siamo sentiti affezionati per qualche motivo.

Il legame

L’esorbitante quantità di necrologi che hanno invaso le pagine del Corriere della Sera in questi giorni suggeriscono che, con ogni evidenza, non pochi si sono sentiti affezionati al Cavaliere.  Molti sono firmati da nomi noti e vicini alla famiglia, altrettanti da comuni cittadini.  Tra le espressioni ricorrenti troviamo «immense doti imprenditoriali», «uomo indimenticabile», «politico lungimirante», «protagonista straordinario dei nostri tempi», «uomo geniale», «combattente»; e qualche punta di originalità tra cui segnaliamo: «come un discepolo sei salito in paradiso da Gesù»; e un particolarmente realista (ancorché forse per i motivi sbagliati): «l’uomo a cui dobbiamo tutto quello che siamo».

Dov’eri e che cosa stavi facendo quando è morto Silvio Berlusconi? È una di quelle situazioni in cui ci si sente autorizzati ad avere un approccio particolarmente solipsista nei confronti dell’esistenza. Io, per esempio, ero all’aeroporto di San Paolo. Mi trovavo davanti al gate 330 presso cui ero arrivata con le usuali tre ore di anticipo. Nel mondo esterno non avevo dati mobili così, quando mi sono connessa al wifi, le notifiche dalla fine di un’era mi sono esplose tra le mani. Alle otto del mattino successivo avanzavo col mio trolley nel corridoio di casa e arrivavo davanti alla porta della cucina dove, schierati al tavolo della colazione nei loro bei pigiami, i miei coinquilini con occhio giudicante mi chiedevano: «Che cosa hai fatto davvero in Brasile? Dov’eri ieri mattina? Sei sicura di non c’entrare niente con questa storia di Silvio?».

E ancora oggi nelle chat di gruppo che ribollono di commenti c’è chi dice «uno che racconta le storie così è un santo per forza», e chi parlando di un fotomontaggio che vede il Gabibbo a testone chino, in coda nel corteo funebre, afferma «ma perché non lo hanno fatto davvero? Si prendono troppo sul serio, non hanno imparato dal maestro».

Un genere letterario 

«I nati dal 1975 al 1990 hanno visto l’Italia perdere moltissimo tempo. Mentre gli altri paesi esercitavano la loro creatività nei modi più svariati, noi abbiamo cercato di capire il ventennio berlusconiano. Il risultato è che Berlusconi è un genere letterario (…)». 

Così scriveva Alessandro Aresu nel saggio Generazione Bim Bum Bam (Mondadori Strade Blu, 2012), anticipando – questo sì, con lungimiranza – il racconto collettivo che sarebbe inevitabilmente seguito alla fine del corpo mortale dell’ex premier. Le altre generazioni si alzino in piedi a fornire le proprie ragioni, i millennial sono stati senza alcun dubbio mediaticamente cresciuti da uno sconosciuto brianzolo. Forse, allora, oggi possiamo prenderci il lusso di puntare il dito contro il grande demiurgo delle nostre infanzie mentali e dire guarda che sei stato tu, in fondo, a iniziare a insegnarci come si fa a mettersi al centro di tutto.

Madonna che silenzio c’è stasera è un film del 1982, è esistito dodici anni prima dello spot della discesa in campo e di tutto ciò che è seguito fino ad arrivare al 12 giugno 2023. Nel mezzo, tra le molte morti, c’è stata anche quella delle politiche del lavoro, dell’investimento nello stato sociale, e della coscienza di classe.

Allora, forse, senza retorica e senza didascalia, fa bene ricordare quel Francesco stralunato che cerca lavoro ma non vuole davvero trovarlo, perché trovarlo significa venire incatenati a un telaio che è fonte di reddito ma può essere fonte anche di mutilazione, il Francesco a cui un aiutante magico sbilenco a un bel momento dice: «Questa è la chiesa, la casa dei preti che ti insegnano che per andare in paradiso devi lavorare al telaio. Ti salva l’anima, ma il corpo se lo mangia il diavolo, il mostro, il telaio»; e ricordando questa battuta ricordare che ogni generazione, ogni èra e ogni società ha la sua chiesa, il suo telaio, il suo diavolo più o meno elegante, il suo mostro meglio o peggio mascherato, più o meno abile a raccontare belle storie, e a farci ridere con le sue barzellette.

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