La prima volta che ho avuto coscienza del fatto che l’Etna fosse un’entità tutt’altro che immobile e dormiente è stato nell’estate del 2001. Al lido che frequentavo con la mia famiglia, fitto reticolo di legno poggiato sulla scogliera magmatica, la radio trasmetteva insistentemente La mia signorina di Neffa. Avevo nove anni e del mondo capivo solo ciò che mi interessava: i gelati confezionati, Harry Potter e la lingua di mio fratello, all’epoca molto più basso di me. Una coppia di turisti genovesi aveva fatto amicizia con i miei genitori, e delle loro conversazioni ricordo l’enorme stupore che mi provocò sentire la frase «hanno solo spaccato qualche vetrina».

Si riferivano, ridimensionandoli, ai fatti del G8 appena accaduti, e dal mio punto di vista, costruito quasi esclusivamente sulle immagini apocalittiche e marziali del TG1, la divisione tra bene e male in quello scontro era evidente. I cattivi manifestavano, i buoni difendevano. Grazie a quella anonima signora genovese, che insegnò a mio padre a mettere patate e fagiolini nella pasta al pesto, mentre il marito definiva «da cinema» i gamberi mangiati sulle palafitte di Capo Mulini, ho chiesto cosa fosse il G8 e perché quei ragazzi con i volti coperti che manifestavano non erano i cattivi della storia. Scoprii così che oltre al Magnum Double Caramel e alla Camera dei Segreti c’erano anche i movimenti no-global, ma soprattutto imparai il nome di Carlo Giuliani, che mi sembrava grandissimo, con gli occhi profondi nella fototessera diventata simbolo di una tragedia, e invece aveva solo ventitré anni.

Cenere che piove dal cielo

Nell’estate di domande importanti e prese di coscienza, pochi giorni prima di quell’infausto venti luglio del 2001, l’Etna aveva cominciato a eruttare. La città divenne tutta nera, ricoperta dalla cenere che pioveva dal cielo non appena spazzata via quella caduta poche ore prima, in un flusso costante di ritorno del rimosso. Una mattina mi svegliai da un incubo che è rimasto perfettamente vivido nella mia memoria: approfittando del nero che aveva avvolto la città come tenebre incessanti, un gruppo di vampiri si era stabilito a Catania, gettandola in un panico horror degno di un albo di Dylan Dog disegnato da Corrado Roi. Forse è questa la prima vera intromissione del vulcano nella mia psiche, una condizione che accomuna tutti i cittadini in modo più o meno acuto, a seconda del grado di fatalismo, paranoia e fantasia.

Settimane in cui accadono decenni, diceva Lenin, e in effetti, anche il settembre del 2001 non si è tirato indietro. La vulgata vuole che ogni millennial che si rispetti fosse davanti la televisione a guardare La Melevisione durante l’attentato terroristico che ha chiuso definitivamente il capitolo del Novecento, e dunque, non sarò certo io a contraddire questo ricordo collettivo dicendo che in realtà, a pochi giorni dall’inizio della quarta elementare, stavo guardando dei video musicali su MTV. Smaltita la cenere, a quel punto, c’era ben altro da metabolizzare, e la sensazione di incombenza che proveniva da un enorme vulcano pronto a far tremare la terra e a sommergerci con il suo alito magmatico ora faceva il paio con un’altra presenza ingombrante, la base militare di Sigonella.

La base

Schiacciata tra due fuochi, letteralmente, prendevo atto di una terribile verità figlia di un’epifania forzata e fantasiosa: se i terroristi vogliono attaccare gli americani, e gli americani vivono a un passo da casa mia in una sorta di micro-riproduzione perfetta del loro habitat naturale, con tanto di drive-in e parchi da skate, non siamo al sicuro. È ovvio, pensavo, che trovandoci a un passo da questo famigerato Medio Oriente, là dove a scuola si collocano all’incirca il Tigri e l’Eufrate, affacciati sul Mediterraneo, pieni zeppi di marines muscolosi che il sabato sera si riversano sulle vie del centro per stappare birre e darsi il cinque, il prossimo obiettivo siamo noi.

Non ci basta vivere nell’eterna minaccia di un’esplosione distruttiva, sul suolo precario che trema a ogni singhiozzo di “mamma Etna” – perché sì, è così che i locali chiamano il vulcano, “a muntagna”, al femminile e con le sembianze della madre di Woody Allen che incombe su New York, Freud dacci tregua – ma dobbiamo pure vedercela con gli yankee, che con la loro presenza ci trasformano in un bersaglio comodissimo. Go home, ve ne prego, chiedevo alle stelle cadenti e agli angioletti della buonanotte, ché di problemi qua sulla costa orientale ne abbiamo già fin troppi.

Melior de cinere surgo, dice il motto di Catania. Non so se si tratti più di coraggio indomito o testarda idiozia, di solito il confine è sottile, sta di fatto che su questo senso di rinascita a ogni costo, le fenici dello Ionio ci hanno ricavato quintali di mitopoiesi. A partire dal culto della Santa protettrice della città, Agata, che pur di non sposare il console romano Quinziano e restare fedele alla sua vocazione cristiana subì torture terribili, tra le quali l’asportazione dei seni che i catanesi hanno continuato a celebrare attraverso le cosiddette “minnuzze” di Sant’Agata, quelle piccole cassate di inconfondibile richiamo mammario.

Ogni anno, per tre giorni, la città le rende omaggio: Agata ha salvato Catania ben due volte dalla furia dell’Etna, in un’Eva contro Eva di natura e cultura, dunque la festa non può che essere proporzionata alla sua grandezza. Tre giorni in cui tutto si blocca, si ricopre di cera, segatura, coriandoli, tre giorni in cui si dà per scontato che poi bisognerà ripulire ogni angolo, far rinascere le vie cittadine dalle ceneri dell’estasi mistica, proprio come succede quando i marciapiedi, i tetti e e le strade affondano nel nero della polvere vulcanica. In questo uno contro uno femminile, perché guai a sbagliare il sesso del vulcano – Stromboli, cugino di primo grado, invece, è maschio, “iddu” – e a dire che è “minaccioso” o “bello”, altro che arancina e arancino, potremmo dire che Catania è la prima città figlia di una coppia omogenitoriale.

Agata ed Etna, mamma protettrice e mamma severa, mamma calma e mamma nervosa, suscitano nei catanesi lo stesso senso di attaccamento e devozione, declinata in modo speculare ma anche complementare, in un conflitto che crea figli pazzi e scostanti, costantemente tirati per l’orecchio da venerazione e timore.

Le paure

A proposito di pericoli e timori. Mio nonno mi raccontava che quando era ragazzo saliva sull’Etna per guardare l’alba dal cratere centrale, nessuna guida, nessun divieto, solo loro sdraiati a pancia in giù ad aspettare il sole; diceva anche che da adolescente, subito dopo la fine della guerra, si era unito a un movimento che avrebbe voluto la Sicilia come quarantanovesima stella statunitense. Mio padre invece, col motorino, andava a farsi le derapate nella Valle del Bove, il grande buco dentro cui si accumula la lava che non arriva a distruggerci, per grazia concessa. Un militare di Sigonella, in visita all’agriturismo di un amico, chiese candidamente quanti camion di sabbia ci fossero voluti per mettere su quella bella montagna incandescente che sbuffa e brontola.

Per i marines a quattro stagioni, forgiati dalle proteine, l’idea di creare dal nulla qualcosa che abbia le sembianze di un luogo preesistente, come un vulcano o un outlet in stile set di Cinecittà, deve essere più immediata, del resto la loro base militare è una riproduzione perfetta degli Stati Uniti impiantata sulla piana catanese, la stessa di Verga e delle capinere, tanto che da piccoli ci venivano riportate le meraviglie di quell’angolo proibito. A Sigonella per Halloween i bambini fanno dolcetto o scherzetto bussando alle porte delle case, proprio come nei film, poi hanno un cinema drive-in, proprio come nei film, e si trovano i Levi’s e le Converse a prezzi stracciati. Loro non possono imparare l’italiano, ci dicono, ma noi possiamo imparare la loro lingua, ché tanto è la stessa di Tom Cruise e Johnny Depp; e difatti, che sorpresa ritrovarsi in classe durante l’appello un esotico nome da Top Gun, un mezzo americano che non vede suo padre da anni perché finita la missione in Sicilia ha pensato bene di abbandonare moglie locale e bambino in fasce, lasciandogli giusto il privilegio di un bel biglietto da visita.

In classe, oltre ai figli del piano Marshall, abbiamo conosciuto i sussulti del terremoto. In una mattina autunnale, di quelle in cui ancora non ti sei del tutto capacitato di aver già finito il tempo dell’estate, cominciano ad arrivare comunicazioni in classe. «Maestro, il padre di Chiara è giù che la aspetta, è venuto a prenderla», sta male? L’infame ha finto un mal di pancia per farsi portare via prima del suono della campanella. Poi, di nuovo, «maestro, c’è la mamma di Riccardo che lo aspetta sotto», e così per tutti, tranne ovviamente che per me e qualche altro disgraziato.

Mentre i genitori di ventotto bambini si scapicollano per portarseli a casa dopo una scossa che ha fatto tremare tutto, altri decidono di non farne un dramma. «Non c’è posto sismicamente più sicuro della tua scuola elementare, è un prefabbricato» spiega poi la madre architetto per difendersi dalle accuse di negligenza. Certo, intanto però Gabriele, Giulia, Simone e tutti gli altri se ne sono andati a casa loro a guardare le televendite dello Chef Tony che danno solo al mattino sulle reti private mentre noi ripassavamo tabelline e barbabietole da zucchero. Nel frattempo, il sindaco Umberto Scapagnini, medico del Cavaliere, annuncia che la visita di Berlusconi è rimandata ma che il presidente non vede l’ora di poter venire nella città in cui la terra non smette di tremare e la lava di colare.

Cambiare sempre

Di quei giorni neri e instabili non resta solo il ricordo ma anche il riflesso. Quando mi trovavo nel Regno Unito per uno scambio Erasmus, una sirena ci svegliò all’alba nello studentato che affacciava su un cimitero ottocentesco, molto british. Erano le esercitazioni per gli incendi, unico vero cruccio londinese, ma la mia mente, non appena sentito l’allarme, partorisce solo un pensiero: è esplosa l’Etna. La mia coinquilina americana, invece, mi confessò poi che aveva subito pensato a un attacco nucleare. Chissà a cosa pensano prima i militari di Sigonella quando sentono un allarme, atomica o vulcano? Quanto tempo bisogna trascorrere a distanza ravvicinata da una minaccia mortale e costante prima che questa si impossessi del tuo subconscio?

Non lo so, ma so che non vivo più a Catania dal 2011, eppure, con cadenza regolare, nei miei incubi si palesa un tappeto di lava che avvolge la città fino al mare. La salita di Via San Giuliano, strada ripida in pieno centro da cui passa il feretro di Sant’Agata trascinato dai devoti, era un cratere, mi dicono, per questo verticale. Potrebbe riaprirsi come bocca dell’Etna da un momento all’altro, e allora cosa ci abbiamo costruito a fare una strada, un’università, due licei, un ospedale, mi domando. Non c’è risposta a questo dubbio, o forse ce ne sono molte, antiche, profonde come la camera magmatica dentro cui Efesto forgiava le sue armi per Achille aiutato dai Ciclopi.

Armi, missili, aerei, aeroporti militari, Craxi: quando su internet poco tempo fa ha cominciato a girare un’immagine – non so dire se vera o finta, poco importa, l’effetto paranoico si era già attivato – in cui si fotografavano i movimenti degli aerei militari statunitensi partiti da Sigonella per attaccare l’Iran, la reazione è stata immediata. «Non capisci, questi partono da Catania, ci possono bombardare da un momento all’altro» scrivo a chi prova inutilmente a rassicurarmi del fatto che non è così che funziona.

Loro, i continentali, non sanno che certe paranoie sono più tenaci e durature del basolato, e che le paure, a differenza del mutevole profilo etneo, possono rimanere identiche anche a distanza di decenni. Il terrore più grande però è quello che si forma quando dalla città dove sei nato e cresciuto e dove rimane la tua famiglia devi andare via. La guardi da lontano ma il pericolo non si ridimensiona, anzi, diventa ancora più subdolo: e se saltasse tutto in aria mentre io non ci sono? E se la mia scuola elementare, quella del terremoto, o il lido al mare sulla scogliera, quello dove sentivo Neffa, e tutto il resto, sparissero, inghiottiti dal fuoco e sepolti dalle fiamme, quando sono via?

Diceva lo scrittore Vincenzo Consolo che i siciliani sono Ulissidi, lo sradicamento è «doloroso ma necessario», la distanza diventa una condizione indispensabile per molti, così come il ritorno, sia fisico che metaforico, alla nostra Itaca. Tornare a casa propria vuol dire sperare un po’ di ritrovare le cose come le si sono lasciate, Penelope, Argo e tutto il resto, nell’illusione che la nostra distanza fermi il tempo e che quel luogo non esista senza di noi. Sappiamo bene che non è così, che i genitori invecchiano, che i negozi storici diventano luoghi di aperitivo con infiniti taglieri e taniche di Spritz, che alcune cose migliorano, altre diventano più brutte, ma che qualche punto fermo, questo costante nostos che si rinnova a ogni stagione, deve pure averlo; un fiume, una spiaggia, un albero.

L’Etna, che a ogni eruzione cambia la sua forma, diventando sempre una montagna diversa, più alta, più affinata o più rotonda, minacciosa e al contempo vanitosa, mai uguale alla volta precedente in cui l’hai salutata con il solito broncio lacrimoso di chi arriva e vuole andare via, parte e vuole restare, completa così la sua funzione di madre severa che non ti lascia manco lo spazio per coltivare un po’ di classica nostalgia.

Non ti affezionare all’immagine che avevi di me, sembra dire con i suoi continui colpi di testa, e non dimenticare che una cosa lasciata indietro non ti aspetta ferma nello stesso punto, come te la ricordi tu e come vorresti rimanesse per sempre. E quindi parti, vai a lavorare a Milano City, vai a studiare a Bologna, vai a fare l’attore a Roma, lo scrittore a Torino, insomma fai quello che ti pare, ma non ti abituare a niente, neppure al profilo di una montagna che pur esiste da millenni. Solo su Sigonella, forse, possiamo stare certi che resta ferma dove sta, senza spostarsi di un millimetro.


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