Che sorpresa trovare sui miei scaffali questa Storia del teatro italiano del Ventunesimo secolo, pubblicata nel 2122! Apro a pagina 85 e leggo: «Cent’anni fa, nel 2022, Lehman Trilogy di Stefano Massini vinse i Tony Awards, gli “Oscar del teatro” statunitensi. Il premio segnò una svolta nel teatro italiano: finalmente si allestirono e si fecero girare spettacoli davvero nuovi.

Lehman Trilogy aveva dimostrato una cosa fondamentale: esistevano testi capaci di affascinare i pubblici più diversi; classi sociali, età e aspettative discordanti si ritrovavano a teatro e si scoprivano coinvolte dalla stessa storia: situazione normale, in quegli anni, nelle civiltà teatrali europee più avanzate della nostra, come la Gran Bretagna. L’Italia viveva uno stallo che impediva al teatro di essere una forza significativa nella cultura e nella società.

Stefano Massini aveva dovuto superare una serie di resistenze ed equivoci estetici, che nei primi decenni del ventunesimo secolo avevano ridotto il teatro italiano a una nicchia minoritaria, sbriciolata in compartimenti stagnanti.

Da una parte, vigeva ancora il cosiddetto teatro di regia. Per spiccare, la genialità dei registi si applicava a testi classici arcinoti, sempre gli stessi, che permettevano al regista di evidenziare la novità del suo apporto; il che non sarebbe successo con un testo nuovo. A quest’unico scopo – mostrare quant’erano bravi i registi – servivano le innumerevoli riproposte di Shakespeare (e Molière e Cechov, e Schnitzler e Goldoni), che intorpidivano il pubblico abituandolo a considerare le novità contemporanee come una stranezza.

In più, garantivano ai registi il plauso degli addetti ai lavori: nel 2021 il Premio Ubu, il più importante riconoscimento italiano, era andato a Hamlet di Antonio Latella: Shakespeare, ancora Shakespeare, sempre Shakespeare. Qualcosa di nuovo? Per carità. Classici, solo classici. Registi, direttori di teatri, critici, giurie: il teatro italiano era in mano a reazionari travestiti da innovatori.

La competizione per ottenere successo, o anche solo per garantirsi una professione, era talmente sfibrante che ogni regista doveva puntare tutto su sé stesso per mettersi in mostra ed eccellere. In quelle condizioni, la gloria non andava assolutamente divisa con chicchessia: mentre è chiaro che, se si va in scena con un testo nuovo e lo spettacolo piace, il merito del successo va spartito anche con l’autore. Impensabile, per un regista italiano del terzo decennio del Duemila».

La sagacia di Massini

«Stefano Massini aveva avuto l’astuzia di blandire il mastodontico egoismo dei registi italiani, raggirandolo. In che modo? Semplice: aveva presentato il suo testo teatrale come se fosse un romanzo. Nel copione non c’erano veri e propri dialoghi, ma un’addizione di monologhi raccontati al passato remoto, in cui i personaggi non dicono “io”, dato che descrivono sé stessi in terza persona. Nel testo di Massini, infatti, il protagonista Henry Lehman non dice di sé: “Mi guardo intorno”, ma “Henry Lehman si guardò intorno”. E lo stesso fa l’attore in scena. Così lo spettatore aveva l’impressione che fosse stato il regista ad aver avuto l’idea (“geniale!”) di prendere un romanzo e portarlo in scena, insufflando vita in un oggetto testuale che senza di lui sarebbe rimasto ad ammuffire nelle pagine di un libro.

E qui risiedette la sagacia di Massini: non era stata esattamente questa una delle tendenze più radicali di Luca Ronconi, il più importante regista italiano del secondo Novecento? Oltre a testi drammaturgici, per mezzo secolo Ronconi aveva portato in scena anche i romanzi di Bernanos, Henry James, Gadda, Dostoevskij, Léautaud, Amos Tutuola, Gombrowitz, Jaeggy, Ortese e Massini stesso, spesso senza sceneggiarli, ma facendo pronunciare agli attori paragrafi narrativi interi; e perciò si poteva credere che anche con Lehman Trilogy, l’ultima sua leggendaria regia, Ronconi avesse fatto la stessa cosa.

La morale di questa vicenda, in quei tempi bui per i drammaturghi italiani, era che per riuscire a far rappresentare un testo, un autore doveva fingere di non averlo scritto per il teatro; la qualità teatrale delle sue parole doveva essere stata scovata dal regista. Solo così si poteva superare il filtro degli addetti ai lavori, una vera e propria cappa di funzionari, direttori di teatri, critici & C., tutti ancora intrisi di estetica teatrale novecentesca».

I dialoghi, che volgarità

«Un’altra via praticata in quell’epoca era far coincidere il drammaturgo con il regista. Chi voleva scrivere per il teatro, faceva meglio a mettere insieme una propria compagnia. Ma non sempre i due talenti, drammaturgico e registico, eccellevano allo stesso livello. Registi bravissimi, forse un po’ presuntuosi, pensavano di essere anche eccelsi drammaturghi, e viceversa.

Nei primi decenni del secolo ventunesimo la diffidenza italiana verso la drammaturgia aveva raggiunto il suo apice. Non si accettavano più autori né drammaturghi; al massimo Dramaturg, alla tedesca, cioè rabberciatori, adattatori, ricombinatori di testi. Scrivere dialoghi, immaginare personaggi, azioni, storie nuove… Che volgarità. Il testo era diventato un oggetto in mezzo agli altri, una cosa fra le cose, un attrezzo di scena al pari di un una sedia, un costume, un proiettore luci.

E con quest’ultima osservazione, tocchiamo il secondo grande pregiudizio che, nell’Italia dei primi decenni del Duemila, aveva impedito l’incontro fra i migliori talenti registici e i migliori drammaturghi della nazione. Ci riferiamo alla cosiddetta estetica postdrammatica. Nel 1999, lo studioso tedesco Hans-Thies Lehmann aveva constatato che nella seconda metà del Novecento si era affermata una maniera nuova di concepire gli spettacoli teatrali. In sintesi: non più drammatizzare, cioè prendere un testo e metterlo in scena, ma costruire uno spettacolo sommando elementi disparati, senza farli sottostare all’egemonia di un testo.

Nel teatro postdrammatico, uno spettacolo poteva essere fatto di ingredienti eterogenei, considerati tutti alla pari: canzoni, balli, lunghi momenti di silenzio e pantomima, interazione con animali in scena, numeri da circo, costruzione o distruzione in diretta della scenografia, parate di costumi come sfilate di moda, esperimenti scientifici fatti dal vivo, pezzi di conferenze, presenze di testimoni che hanno vissuto davvero una catastrofe (e non attori che non erano presenti al disastro), effetti speciali scenografici (un terremoto riprodotto realisticamente sul palco), eventi pericolosi (un automobile rovesciata che prende fuoco sul palcoscenico)».

Da attori a gladiatori

«Tutto ciò portò a una regressione gladiatoria del teatro più innovativo. Non si fingeva più. Quello che accadeva in scena doveva essere il più vero possibile. Come negli anfiteatri romani, in cui le ferite e le morti dei gladiatori non erano più simulate, al modo delle tragedie greche; il sangue non era più un trucco. La scena si era trasformata in arena.

Tanti secoli prima, nel passaggio dallo spettacolo greco a quello romano (dagli attori ai gladiatori, dalla scena all’arena, dal teatro all’anfiteatro) si era consumata una svolta pornografica – se ci è concessa questa analogia anacronistica –, perché anche nei film porno gli attori maschi non possono fingere l’orgasmo, eiaculano davvero.

Qualcosa di simile accadde con il teatro postdrammatico. Fra il Novecento e il Duemila, l’estetica postdrammatica incentivò l’aspetto performativo degli spettacoli. Gli spettatori si ritrovavano a guardare attori e attrici che non recitavano, ma vivevano esperienze reali: a cominciare da quella, banale, di denudarsi in pubblico (non poi così banale: infatti, ben pochi fra quegli stessi spettatori sarebbero stati disposti a spogliarsi davanti a tutti) o di mostrare i propri difetti fisici e disabilità, fino all’esperienza di ferirsi, di sottoporsi a fatiche estreme, di cospargersi di liquidi e sostanze disgustose, di ingozzarsi, di defecare e smerdarsi in scena.

Era come se le performance di arte contemporanea che si erano viste in gallerie e Biennali d’arte venissero inglobate negli spettacoli teatrali; e ne diventavano il perno principale, sostituendosi allo sviluppo drammaturgico, all’evoluzione narrativa scenica. Non più personaggi e simulazioni, ma corpi messi alla prova dei fatti. Così anche l’esperienza dello spettatore si trasformava: non doveva più immedesimarsi nelle vicissitudini di un personaggio, perché era chiamato ad assistere con preoccupazione all’esperienza reale di un altro essere umano, che sulla scena metteva a repentaglio la sua salute, rischiava di farsi male, di intossicarsi, si umiliava fisicamente e moralmente, si degradava davanti al pubblico, o si pavoneggiava oscenamente: e tutto questo non per finta, ma davvero. Da attori e attrici, le persone in scena si trasformavano sempre più in gladiatori e performer pornoartistici.

Questo genere di teatro, per la verità, era diffuso soprattutto nei festival: li frequentava una composita élite sociale fatta di addetti ai lavori, giovani acculturati e spettatori esigenti. Non era certo un genere teatrale penetrato ampiamente nel pubblico, come il cinema, o come il teatro delle grandi nazioni europee di quegli anni. Non si confrontava con la comunità; si accontentava di parlare ai suoi simili.

Per capire la portata della rivoluzione massiniana, basti questo indizio rivelatore. Prima del trionfo ai Tony Awards, i testi scritti per la scena venivano definiti con una categoria assurdamente cervellotica: “drammaturgia contemporanea”; un’etichetta dissennata, che sembrava fatta apposta per far passare a chiunque la voglia di andare a teatro: “Tesoro, stasera che si fa? Andiamo a vedere un film o un’opera di drammaturgia contemporanea?”. Ma dopo il trionfo di Massini le cose cambiarono…»

Euripide e i postdrammatici

Smetto di leggere, chiudo il libro, lo ripongo nel mio scaffale del futuro. Mi guardo intorno: sulla scrivania ho conservato qualche biglietto, programma di sala e gli appunti che ho preso sugli spettacoli che ho visto in questi mesi.

I Motus, in Tutto brucia (visto a Venezia nella rassegna Asteroide Amor) hanno messo in scena il corpo iconico di Silvia Calderoni, che si denuda e immerge la faccia in un mucchio di cenere, rischiando di soffocarsi. È teatro gladiatorio e performativo. Si basa sulle Troiane di Euripide: ha momenti retorici che puntano sul patetismo politico, per esempio quando vengono elencati i nomi delle vittime di guerre e migrazioni di oggi. E ha invenzioni sceniche ingenue: per raffigurare il piccolo Astianatte gettato da una rupe, fa piombare sul palco dall’alto un sacco rosso.

Se l’intento dei registi era di provocare uno shock etico e civile, uno spettacolo così a me ha lasciato indifferente; ne ho colto soprattutto il manierismo ormai consunto. Sarà perché è da quarant’anni che vedo spettacoli di questo tipo (e a suo tempo li ho amati tanto, tantissimo; compresi quelli dei Motus). Per onestà va detto che Tutto brucia è piaciuto molto ai ventenni in sala, che forse di queste cose ne hanno viste ancora poche.

Al confronto, mi ha toccato profondamente proprio Troiane (visto a Padova al Teatro Verdi) messo in scena da Andrea Chiodi. Che ansia a ogni entrata in scena del messaggero Taltibio, che tiene aggiornate Ecuba, Cassandra, e Andromaca sulla loro sorte terribile! I vincitori greci prendono decisioni sempre più spietate contro le troiane sconfitte. E quelle donne non possono farci niente: è una situazione disperata, di impotenza assoluta, che provoca – questa sì – angoscia politica nello spettatore facendogli pensare alle vittime di oggi. Euripide vince sul teatro postdrammatico.

Passato e presente

Non ho capito che intenzioni avesse Leonardo Lidi con Il Misantropo (visto a Torino al Teatro Carignano). È uno dei nuovi registi più talentuosi, ma a giudicare dal suo percorso sembra stia cadendo anche lui nell’equivoco che per mostrare il suo valore un regista debba misurarsi muscolarmente con i classici. In questa ennesima riproposta di Molière, Lidi lo pasticcia con l’inserzione di monologhi scritti da lui. Ma perché parassitare? Perché non rischiare davvero qualcosa di nuovo? Così ha fatto invece Emanuele Aldrovandi, che si è misurato con il presente, straniandolo. In L’estinzione della razza umana (visto a Torino al Teatro Gobetti), in un cortile condominiale ci sono due coppie: si affacciano alla finestra per cantare, scendono a ritirare i pacchi portati dai corrieri. Sono confinate in casa da una pandemia che trasforma gli esseri umani in tacchini. Lo spettacolo, elegante e feroce, è fondato sulla progressione geometrica del dialogo, in cui Aldrovandi è imbattibile.

Miracoli Metropolitani (visto al Palamostre di Udine) di Gabriele Di Luca per la compagnia Carrozzeria Orfeo immagina che una marea di liquami sia uscita dalle fogne e costringa la gente in casa. La scena è una cucina in cui si prepara cibo da consegnare a domicilio. Non conoscevo né l’autore né la compagnia. Una bellissima sorpresa. La storia, i personaggi, le battute sono all’altezza dei nostri tempi, il testo è grottesco, minuzioso, perturbante. Pubblico felicissimo.

L’autore, Di Luca, è anche il regista della compagnia, proprio come lo sono Lucia Calamaro, che di recente ha proposto Smarrimento (l’ho visto a Milano al Teatro Franco Parenti) e Darwin inconsolabile (visto a Venezia al Teatro Santa Marta) e Emma Dante, autrice e regista di Pupo di zucchero (visto a Venezia al Goldoni).

La prima è una drammaturga fantasiosa e autoriflessiva, e una regista eccellente; anche questi due spettacoli lo hanno confermato. Nella seconda, purtroppo il testo di Pupo di zucchero non è all’altezza della sua forza scenica. Però la scenografia è bella, ogni personaggio è duplicato da un inquietante pupazzo-mummia che gli somiglia alla perfezione. Lo spettacolo è come un’opera di scultura contemporanea vivificata da una raffinata pantomima.

Invece resto sempre stupefatto dal virtuosismo totale di Marta Cuscunà, sia come autrice che come regista e attrice. Anche in Earthbound (visto a Venezia al Goldoni) è prodigiosa nel dare vita ai pupazzi che lei stessa ha costruito (fa tutte le voci mentre li muove!); per di più in questo caso volteggia con i pattini a rotelle sul palcoscenico e dialoga anche con un’Intelligenza Artificiale. Cuscunà racconta un futuro postumano; e nonostante tutti i riferimenti “giusti” a Donna Haraway e al pensiero critico queer, uno dei suoi personaggi si lascia andare a un fiotto di nostalgia vetero-materna, che ha contrariato alcune neo-femministe con cui ho parlato dopo lo spettacolo.

Insomma, questi spettacoli sanno dire cose innovative e scomode sul presente e sul futuro, e riescono a coinvolgere gli spettatori. Il teatro nuovo c’è. Basta volerlo fare! E il pubblico risponde. Dopo la pandemia, mentre il cinema in sala soffre, la gente torna a riempie i teatri.

Arriva la biennale teatro

In questi giorni inizia la Biennale Teatro. Se avete intenzione di passare a Venezia, queste sono le settimane giuste. È un’occasione imperdibile, fitta di registi e compagnie internazionali: Christiane Jatahy (dal Brasile; premiata con il Leone d’Oro), Caden Manson/Big Art Group (New York); Milo Rau (Svizzera), Deflorian/Tagliarini (Italia); Peeping Tom (Belgio), Olmo Missaglia (Italia); Samira Elagoz (Finlandia); Belova/Iacobelli (Cile/Belgio); Yana Ross (Usa/Lituania); Antoine Neufmars (Francia) e Aine E. Nakamura (Usa/Giappone). Una scorpacciata succulenta. Non vedo l’ora di abbuffarmi. Che impostazione hanno dato al festival Stefano Ricci e Gianni Forte, i direttori di quest’anno? Sarà una Biennale Teatro greca o romana? Recitativa o gladiatoria? Drammaturgica o postdrammatica? Sulla scena vedremo personaggi o pornoartisti? Attori o performer? Se vi interessa, vi saprò dire.

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