Dieci anni fa il colonnello libico Muammar Gheddafi veniva catturato e ucciso dai ribelli nella città di Sirte. Le immagini del suo volto insanguinato e della sua Browning 9mm placcata d’oro in mano ai ribelli hanno fatto il giro del mondo in pochi secondi. Dopo 42 anni, il 20 ottobre del 2011, la Libia è senza un rais e deve affrontare il dolore di una guerra civile che ha devastato il paese.

Ma chi era Gheddafi? E cosa ha rappresentato per il popolo libico e per il mondo arabo? È una domanda a cui non ci sono risposte certe: per alcuni è stato un buon anticolonialista, per altri un oppressore e altri ancora lo hanno considerato un interlocutore affidabile in una Libia ricca di petrolio e con un’economia in espansione.

Le origini berbere

Il colonnello nasce nel 1942 in un paese semisconosciuto della Tripolitania che conta poco più di 5mila abitanti e dista a pochi chilometri da Sirte. La leggenda narra che sia nato all’interno di una tenda, abitazione tipica delle tribù berberi. La sua qabila (tribù, se ne contano 140 in Libia) fa parte di una di queste, si chiama Qadhadhfa e nel corso degli anni i suoi membri hanno abbracciato i dettami dell’islam e la tradizione araba, ed è proprio la religione uno degli elementi che ha plasmato di più la personalità del colonnello libico che l’ha sempre usata per attrarre consenso politico interno. Ma la tenda rimarrà per tutta la sua vita un elemento di vanto e di protagonismo del suo potere. È qui che accoglie giornalisti, capi di governo, imprenditori e esponenti politici che gli fanno visita a Tripoli. E saranno sempre le tende, il luogo in cui alloggerà durante le sue visite a Roma e a Parigi. Si ricordano quelle montate a Villa Borghese e sorvegliate dalle amazzoni, le guerriere che si portava sempre dietro mostrandole come un trofeo agli occhi del mondo occidentale. 

Dalla formazione al colpo di stato

Nei primi anni della sua vita, la Libia era ancora sotto il dominio italiano (lo rimarrà fino al 1943). Gheddafi è ancora troppo piccolo per immagazzinare ricordi, ma conosce bene il retaggio violento di quella colonizzazione e lo sbandiera con orgoglio ogni qualvolta mostra la cicatrice sul braccio provocata da una mina scoppiata quando aveva sei anni. Non è un caso se fin dall’inizio si presenta come una leader anticolonialista e antioccidentale.

Durante la sua giovinezza Gheddafi frequenta la scuola coranica di Sirte prima di entrare nell’accademia militare di Bengasi nel 1961. In questi anni rimane affascinato dalle idee politiche panarabiste incarnate dalla figura del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e ghigna l’occhio al mondo sovietico. Dopo aver partecipato a vari corsi militari in Gran Bretagna e nella Bosnia di Tito, a poco meno di 30 anni diventa capitano. Una qualifica che lo mette in ottima luce tra gli alti ranghi militari dell’esercito libico.

Siamo a fine anni Sessanta e a comandare nel paese è ancora re Idris, considerato corrotto e filo occidentale. Il malcontento è diffuso, sia nella popolazione che tra gli apparati militari e la partenza in Turchia del re per sottoporsi a delle cure mediche diventa l’espediente perfetto per un colpo di stato. Il 1° settembre del 1969 Gheddafi fa deporre e arresta i membri della famiglia reale e il principe ereditario Hasan. Per re Idris, l’esilio in Egitto è stata una scelta obbligata.

Sono anni concitati per la Libia e Gheddafi si presenta al suo popolo come un rivoluzionario. La nuova costituzione abolisce i partiti e le elezioni, e da vita alla Repubblica libica guidata da un Consiglio del comando della rivoluzione composto da 12 militari al cui comando c’è sempre Gheddafi. Inizia la sua ascesa politica. Nel 1970 come risposta all’esperienza coloniale confisca i beni e caccia i cittadini italiani ed ebrei presenti sul suo territorio. Ci vogliono trent’anni prima di rivedere i cittadini italiani a Tripoli.

Il libro verde

Il suo manifesto politico è scritto nel rinomato “libro verde” pubblicato nel 1975, qui propone il un progetto basato sul panarabismo e sul socialismo nazionale, che lo porta a nazionalizzare gran parte delle compagnie petrolifere e delle aziende presenti nel paese. Sono queste idee politiche che lo spingono un anno più tardi a proclamare la “Jamahiriya”, la “Repubblica delle masse” e ad adottare la bandiera verde come simbolo della nazione.

Durante i suoi primi anni politici segue le orme dell’egiziano Nasser e prova a riunire tutti gli stati arabi, un obiettivo che però si scontra con la realtà dei fatti: non tutti vogliono legarsi a un golpista mal visto dagli Stati Uniti e dall’Occidente. È il caso della vicina Tunisia, da sempre legata alla Francia, che guidata da Habib Bourghiba preferisce mantenere un certo distacco da Tripoli. Il suo mancato successo con gli stati vicini lo spinge ad abbracciare la causa palestinese e a finanziare l’Olp di Arafat, ma non solo. Strizza l’occhio anche a gruppi sovversivi come l’Ira in Irlanda e, più tardi, sostiene anche Nelson Mandela nella lotta all’apartheid. Non è un caso la storica se Mandela dichiarò: «Ho tre amici nel mondo, e sono Yasser Arafat, Muammar Gheddafi e Fidel Castro». Il Rais libico, però, si fa anche una lunga lista di nemici sia interni che esterni, soprattutto quando decide di chiudere le basi militari inglesi e americane presenti sul suo territorio.

Bombardamento americano e i rapporti con l’Italia

A poco più di 15 anni dal colpo di stato, Gheddafi è sull’apice del potere, dalla Nato e dagli Stati Uniti lo accusano di essere il mandante di vari attentati terroristici che hanno gettato l’Europa nel terrore. Ed è proprio con gli Usa che si arriva allo scontro nel 1986 quando l’allora presidente repubblicano Ronald Reagan decide di bombardare Bab al Azizia, il quartier generale di Gheddafi, dopo un attacco libico alla marina militare americana che si stava esercitando del Golfo di Sirte. Sarà proprio una chiamata di Bettino Craxi a salvargli la vita dopo averlo avvertito dell’imminente attacco a stelle e strisce, come confermato in un incontro avvenuto nel 2008 alla Farnesina sulle relazioni tra i due paesi.

I rapporti con l’Italia

Per l’italia la Libia è stata sempre terreno di affari. I grandi colossi dell’energia si sono fiondati nei giacimenti petroliferi del vasto stato nordafricano, traendo guadagni miliardari nel corso degli anni. Ma c’è un altro fattore da considerare: l’immigrazione. Guidati da trafficanti senza scrupoli migliaia di africani provenienti dalla striscia del Sahel giungevano in Libia prima di attraversare il Mediterraneo e arrivare in Italia. Gheddafi lo sapeva bene e ha sempre usato il dossier migratorio come una buona occasione per ricevere fondi e aiuti dagli stati europei. Lo sapeva bene anche il governo Berlusconi che per quegli accordi siglati con il leader libico e i respingimenti è stato anche condannato dalla Corte Europea per i Diritti dell’uomo.

La primavera araba e la sua fine

Se la politica estera del colonnello è stata ricca di protagonismo, la politica interna si è caratterizzata da una forte pressione delle minoranze e delle opposizioni politiche. Sono infinite le violazioni dei diritti umani perpetrati dai suoi apparati di sicurezza interna a danno dei migranti e dei cittadini libici. Era questione di tempo prima che il popolo e le varie fazioni politiche interne si ribellassero. La primavera araba del 2011 diventa un ottimo pretesto per dar vita ai moti rivoluzionari che iniziano nel febbraio del 2011 nelle città più importanti del paese. La risposta di Gheddafi è lapidaria e intransigente: bombe, proiettili e distruzione nei confronti di chiunque provi a rovesciare il potere. In poche settimane si raggiungono oltre 10mila vittime, ma i ribelli non desistono forti anche dell’aiuto della Nato che decide di intervenire nel conflitto. Il resto è scritto nei libri di storia. Gheddafi muore il 20 ottobre di dieci anni fa circondato dalla folla eccitata e incredula.

Oggi la Libia si trova ad affrontare un nuovo processo di transizione politica e ha un nuovo premier, Abdul Hamid Dbeibah, che è stato incaricato dalle Nazioni unite di guidare il paese fino alle nuove elezioni che si terranno il prossimo 24 dicembre. Se Gheddafi è morto, c’è ancora uno dei suoi otto figli che è attivo politicamente e si trova nella città libica di Zintan, dove è stato agli arresti domiciliari dopo essere stato catturato da una milizia locale. Il consenso di cui godeva Gheddafi e la riabilitazione della sua figura nella politica interna dopo 10 anni di disastro per il paese, hanno spinto i rapitori a non uccidere Saif al Islam, e a usarlo piuttosto per scopi politici più grandi. È lo stesso Saif a raccontare cosa gli è accaduto nell’ultimo decennio e qual è il suo schieramento politico, in un lungo articolo pubblicato dal New York Times a fine luglio.

Dopo dieci anni, forse la Libia riuscirà ad avere un governo democraticamente eletto ma superare la crisi politica interna, le dinamiche geopolitiche esterne, le divergenze tra le varie milizie e i gruppi tribali non sarà semplice. C’è un paese intero da ricostruire e Saif al Islam potrebbe continuare la dinastia di suo padre.

© Riproduzione riservata