Il recente arresto di uno youtuber statunitense mentre cercava di raggiungere illegalmente l'isola dei Sentinelesi ha messo in luce un problema più ampio: la costante violazione dei diritti delle popolazioni incontattate. Questi popoli, che rifiutano ogni forma di contatto esterno, sono la prova di quanto, anche oggi, il colonialismo sia ancora presente, pur trasformandosi in nuove forme di sfruttamento e ingerenza
Mentre il mondo celebra la transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile, interi popoli vengono spazzati via nel nome di un progresso che assomiglia fin troppo al nuovo nome di un sopruso antico: il colonialismo.
Il 29 marzo è diventato virale l’arresto di Mykhailo Viktorovych, youtuber statunitense di 24 anni, fermato dalle autorità indiane mentre tentava di raggiungere illegalmente North Sentinel, una delle ultime isole abitate da un popolo incontattato. Con sé aveva una lattina di Diet Coke, una noce di cocco e tutto il necessario per filmare la sua «impresa». Ora rischia dai due ai cinque anni di carcere.
North Sentinel è un’isola di sessanta chilometri quadrati nell’arcipelago delle Andamane. Le uniche immagini disponibili sono quelle satellitari, una macchia verde circondata dall’Oceano. Da oltre vent’anni è vietato mettervi piede: vi abitano i Sentinelesi, il popolo più isolato del pianeta.
Ancora una volta, l’attenzione si è concentrata sull’aspetto più spettacolare, facile per andare in trend sui social, lasciando sullo sfondo la domanda più scomoda: da dove nasce l’idea che ci sia un solo modo valido di abitare il mondo?
Le tribù incontattate sono oltre cento nel mondo: «Una parte dei media mainstream continua ancora oggi a parlare di popoli incontattati in termini molto sensazionalisti, con titoli clickbait. Questo approccio spettacolarizzante spesso si accompagna a descrizioni stereotipate e razziste, che dipingono i popoli incontattati come “primitivi”, “separati dal mondo moderno”, “ostili” o, ancora, “lontani dalla civiltà”: termini che riecheggiano la stessa narrativa usata per giustificare – oggi come in passato – il furto delle loro terre o la loro assimilazione forzata alle società dominanti», spiega a Domani Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia, ong che si batte per la sopravvivenza dei popoli indigeni.
Le scuole per l’assimilazione
Non è la prima volta che qualcuno tenta di entrare in contatto con i Sentinelesi, che hanno sempre rifiutato con determinazione ogni forma di interazione.
Se in questo caso si è trattato di una sfida online, nel 2018 il missionario statunitense John Chau fu ucciso dalle frecce dei Sentinelesi mentre cercava di raggiungere l’isola per convertirli al cristianesimo.
Il tentativo di conversione religiosa delle popolazioni indigene non è soltanto un triste capitolo del passato coloniale, o un caso isolato che potrebbe sembrare anacronistico: continua, oggi, sotto forme più subdole.
In diversi paesi, le scuole per l’assimilazione insegnano ai bambini indigeni che le credenze e i saperi dei loro popoli sono “arretrati”, inferiori o sbagliati.
In India e in Messico, le industrie estrattive finanziano istituti scolastici dove si insegna ad apprezzare l’attività mineraria e a disprezzare il legame ancestrale con la terra, definito “primitivo”. In molti casi, lo Stato usa l’istruzione come strumento nazionalistico e per soffocare il dissenso: è il caso della Papua Occidentale, dove il governo indonesiano cerca di indottrinare i bambini papuasi e reprime con violenza ogni forma di rivendicazione identitaria.
Nel nome del progresso
«Ogni tentativo di contatto con i popoli incontattati è illegale e può essere letale. Non avendo difese immunitarie contro molte malattie comuni, anche un semplice raffreddore potrebbe decimarli o addirittura sterminarli. Inoltre, quella di non entrare in contatto è una loro scelta, spesso maturata per sopravvivere a invasioni, violenze e traumi del passato. Una scelta che va riconosciuta e rispettata», afferma Casella.
La storia delle popolazioni vicine ai Sentinelesi mostra chiaramente quali potrebbero essere le conseguenze di un contatto forzato. L’arrivo dei colonizzatori britannici nell’Ottocento ebbe un impatto devastante sugli Onge e sui Grandi Andamanesi: la popolazione crollò dell’85 per cento e del 99 per cento. Nulla lascia pensare che per i Sentinelesi l’esito sarebbe stato diverso.
I britannici, in realtà, cercarono di entrare in contatto con i Sentinelesi, sbarcando sull’isola. La popolazione si rifugiò nella foresta, mentre alcuni individui vennero rapiti e portati a Port Blair per «scopi scientifici». Come prevedibile, gli adulti morirono rapidamente a causa delle malattie, mentre i bambini – rispediti sull’isola – potrebbero aver introdotto patogeni letali. Questo episodio può aver contribuito a rafforzare l’intenzione dei Sentinelesi di rifiutare ogni contatto.
«I popoli incontattati – come tutti i popoli indigeni – non sono reliquie di un passato remoto né sono congelati nel tempo: tutti i popoli cambiano costantemente e in tutte le epoche», sottolinea Casella.
Il problema, però, non riguarda solo un passato lontano. Le stesse logiche che hanno guidato invasioni, rapimenti e assimilazioni forzate si ripropongono oggi sotto nuove forme. Stati e multinazionali violano i territori delle popolazioni indigene nel nome del progresso, dell’economia e della transizione ecologica.
Un caso emblematico è quello degli Hongana Manyawa, sull’isola indonesiana di Halmahera: la loro foresta ancestrale è oggi minacciata dall’estrazione di nichel per la produzione di batterie per veicoli elettrici. La compagnia francese Eramet, pur sapendo della loro presenza fin dal 2013, continua a operare nella zona. Le attività minerarie violano il diritto internazionale e mettono a rischio la sopravvivenza di oltre 500 persone.
«Ancora oggi – conclude Casella – queste comunità vengono etichettate come “arretrate” o “incapaci di autogovernarsi”, solo perché adottano stili di vita non industrializzati. È un pregiudizio radicato in logiche razziste e coloniali, che viene usato per legittimare ingerenze presentate come “per il loro bene” o per un presunto “bene superiore”. In realtà, si tratta di espropri mascherati da progresso, civilizzazione o conservazione ambientale. Dal Brasile all’India, dalla Tanzania all’Indonesia, gli esempi sono ovunque».
La Hong Kong indiana e il crimine di genocidio
Paradossalmente, i Sentinelesi oggi godono di una certa protezione giuridica, ma si tratta di un unicum, forse solo perché la loro isola — piccola, remota e priva di risorse sfruttabili — non è ancora diventata oggetto di interesse economico.
Altrove, anche all’interno dello stesso stato, altri popoli indigeni non sono stati altrettanto fortunati: le loro terre, più appetibili per l’industria vengono sistematicamente invase, sfruttate e devastate.
Nell’isola di Gran Nicobar vive da oltre diecimila anni la popolazione degli Shompen. Anche loro hanno sempre rifiutato ogni tipo di contatto, ma il governo indiano ha altri piani.
Il Great Nicobar Development Plan mira a trasformare un terzo dell’isola nella "Hong Kong indiana": oltre tre milioni di alberi rischiano di essere abbattuti per far posto a un porto gigantesco, una nuova città, un aeroporto internazionale, una centrale elettrica, una base militare, un parco industriale e 650.000 coloni. L’aumento della popolazione locale arriverebbe così all’8.000 per cento.
Le comunità degli Shompen saranno devastate, così come l’ecosistema che hanno preservato per millenni e che garantisce loro il sostentamento. Nel febbraio 2024, 42 accademici internazionali hanno scritto al presidente indiano Droupadi Murmu chiedendo l’abbandono del progetto, definendone gli effetti cumulativi come una «sentenza di morte» per gli Shompen. Secondo alcuni esperti, questo equivarrebbe al crimine internazionale di genocidio.
Il governo indiano è consapevole dei rischi: nella propria valutazione di impatto ha riconosciuto che l’occupazione potrebbe costituire «una seria minaccia all’esistenza degli abitanti», e ha proposto come soluzione un inquietante «perimetro geografico virtuale con torri di sorveglianza», ovvero un sistema di geofencing.
I migliori ambientalisti e le risorse rubate
Il destino di queste popolazioni è spesso legato a quello della flora e della fauna degli ecosistemi in cui vivono. Secondo Survival International, i popoli indigeni sono i migliori custodi dei loro ambienti, ma le loro terre, ricche di biodiversità, sono anche un obiettivo per le industrie, che vedono nelle risorse naturali una irrinunciabile fonte di profitto.
Un esempio emblematico è la foresta degli Ayoreo-Totobiegosode, in Paraguay. Negli ultimi vent’anni, il paese ha registrato il più alto tasso di deforestazione del Sud America dopo il Brasile, secondo Global Forest Watch. La foresta secca del Chaco, in particolare, è quella che scompare più rapidamente al mondo, minacciata dai latifondisti che abbattano gli alberi per fare spazio a allevamenti di bestiame e produzione di cuoio.
La parte centrale della loro terra è oggi nelle mani di cinque aziende principali: Yaguarete Porá S.A., Carlos Casado S.A., River Plate S.A., BBC S.A. e Itapoti S.A.
Da decenni, gli Ayoreo lottano per il riconoscimento e la protezione della loro terra ancestrale, diritto garantito dalla Costituzione del Paraguay. La loro battaglia legale, iniziata nel 1993, ha coinvolto anche la Corte interamericana per i diritti umani, ma i risultati tardano ad arrivare. Nel frattempo, il governo paraguayano continua a negoziare per guadagnare tempo e per proseguire le operazioni di disboscamento.
Secondo un rapporto del 2020 realizzato dalla Ong Earthsight, l’Italia è uno degli importatori principali del cuoio proveniente da queste aree illegalmente deforestate. Il report cita il caso della conceria Pasubio, tra le più grandi d'Europa, che acquista pellame da queste zone il cui sfruttamento minaccia la sopravvivenza degli Ayoreo e di altre popolazioni indigene.
Una cartina tornasole
Raccontare la storia delle popolazioni incontattate non offre un ritratto completo delle centinaia di comunità che ancora riescono a preservare il proprio habitat naturale, ma rappresenta una cartina tornasole perfetta per riflettere sulle nostre modalità di interazione con il mondo.
Modalità che, sin dall’800, si sono basate sull’idea di progresso e sulla necessità di perseguire interessi economici.
«I popoli indigeni e incontattati rappresentano una parte essenziale della diversità umana e si prendono cura, da tempo immemorabile, di alcuni dei luoghi a più alta biodiversità del pianeta. Difendere i loro diritti fondamentali – come quello all’autodeterminazione e a vivere nelle, e delle, loro terre – è una questione di giustizia e diritti umani. Significa anche mettere in discussione un modello di sviluppo che molti considerano l’unico possibile: in realtà, spesso, non rappresenta affatto un progresso. E nel caso della conservazione ambientale, finisce persino per distruggere l’ambiente e i suoi migliori custodi», conclude Casella.
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