Kimberley Miner del Climate change institute dell’Università del Maine afferma di aver trovato vari pesticidi – incluso il Ddt – in un remoto ghiacciaio dell’Alaska e nelle acque di fusione.

I pesticidi che contengono composti organoclorurati (Ocp) sono vietati nella maggior parte dei paesi del mondo perché possono provocare problemi come affaticamento, mal di testa, nausea, vista offuscata, tremori, confusione e, se inalati in quantità elevate, anche cancro e morte.

Spiega Miner: «Il Ddt che si trova sia in superifice sia all’interno del ghiacciaio Jarvis, ma anche in altri ghiacciai dell’Alaska è certamente arrivato trasportato dai venti atmosferici che l’hanno preso in Asia, dove è ancora usato per cercare di prevenire la malaria. Mentre la regione si riscalda, è molto probabile che anche altri ghiacciai dell’Alaska rilascino questi inquinanti depositati dall’atmosfera nell’ecosistema. Se da un lato c’è il fatto che per il momento le concentrazioni delle tossine nel ghiacciaio e nell’acqua di disgelo sono basse, dall’altro è possibile che si stia verificando un accumulo degli inquinanti negli animali e nei pesci. Le persone nell’Artico che mangiano pesce proveniente esclusivamente dai corsi d’acqua locali potrebbero avere a che fare con notevoli problematiche alla propria salute».

Le colpe del metano

Un altro anno sta per terminare e ancora, nel corso dei mesi, ha raggiunto temperature estreme in molti luoghi del pianeta. Ma non è solo colpa dell’anidride carbonica. C’è un gas completamente diverso da considerare: anche il metano è responsabile dell’attuale tasso di riscaldamento.

È quindi un obiettivo vitale nella lotta per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5°C rispetto al periodo pre-industriale. «Il metano è stato per tanto tempo una sorta di gas Cenerentola», afferma Euan Nisbet della Royal Holloway, Università di Londra.

Con il problema del metano tenuto quasi sotto silenzio, i gas quali l’anidride carbonica e, in misura minore, il protossido di azoto (N2O) hanno attirato verso di loro tutta l’attenzione. Ma ora finalmente non è più così. Al vertice sul clima Cop26 il “problema-metano” è stato fingalmente portato alla ribalta.

I leader mondiali si sono messi in fila per definirlo come una vera preoccupazione e più di 100 nazioni hanno firmato un impegno per ridurre le sue emissioni entro il 2030. Una tonnellata di metano possiede anche 120 volte più potere di riscaldamento di una tonnellata di Co2.

Tuttavia, rimane nell’atmosfera relativamente per poco tempo – circa 12 anni – prima di essere per lo più convertito in Co2, che rimane in circolazione per almeno un secolo. Nell’atmosfera è presente in piccole quantità, tant’è che viene misurato in “parti per miliardo” (ppb); la sua concentrazione attuale è di 1.880 ppb, rispetto ai 722 dell’epoca preindustriale (l’anidride carbonica ha raggiunto le 415 ppm, parti per milione, rispetto a 228).

Il metano prodotto dall’uomo proviene da una miriade di fonti che storicamente sono state difficili da misurare con precisione e quindi ardue da mitigare. La fonte maggiore è l’agricoltura, in gran parte risaie e allevamento di bestiame, che rappresentano il 40 per cento delle emissioni. La seconda fonte più grande, al 35 per cento, è l’industria dei combustibili fossili: il metano spesso fuoriesce dai pozzi di petrolio e gas e dalle miniere di carbone.

La terza fonte più grande è rappresentata dai nostri rifiuti, principalmente discariche e liquami. «La sua bassa concentrazione e la nostra mancanza di conoscenza, insieme al fatto che, verso la fine del secolo scorso, i livelli di metano nell’atmosfera hanno smesso di aumentare, hanno fatto sembrare il gas “un attore piuttosto irrilevante” nel cambiamento climatico», dice Drew Shindell della Duke University della Carolina del Nord su NewScientist. Per questi motivi, quando il mondo si è riunito per la prima volta per affrontare le crescenti concentrazioni di gas serra nell’atmosfera, il metano è stato visto come un problema di secondo ordine.

È vero che venne incluso nel paniere di sei gas serra che il protocollo di Kyoto del 1997 si era impegnato a ridurre, ma il protocollo stesso aveva come obiettivo primario la riduzione della Co2. Poi gli scienziati del clima hanno riconosciuto l’errore e ora, finalmente, il metano è gradualmente uscito dall’ombra della Co2 ed è stato riconosciuto come un problema a sé stante.

L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change chiarisce che il metano è responsabile di circa mezzo grado degli 1,2°C di riscaldamento registrati finora. «Rallentare la crescita del metano è la cosa più importante che possiamo fare a breve termine», dice Shindell.

In una dichiarazione congiunta Stati Uniti-Unione europea si riporta che una riduzione del 30 per cento entro il 2030 del metano in atmosfera ridurrebbe di 0,2°C il riscaldamento globale entro il 2050. Questo risparmio potrebbe sembrare una piccola cosa, ma dato che tutto il riscaldamento finora ammonta a circa 1,2°C, non è da sottovalutare.

L’Iea (International energy agency) ha riportato un esempio interessante: una riduzione del metano di questa portata avrebbe un impatto sul riscaldamento entro il 2050 equivalente a far passare tutte le auto, i camion, le navi e gli aerei di oggi a zero emissioni di carbonio. «È enorme», afferma Tim Gould all’Iea. Tuttavia, non tutti i climatologi sono concordi.

Una analisi degli scienziati del clima all’Università di Leeds e all’Imperial College di Londra ha concluso che sarebbero necessari tagli di circa il 50 per cento per ridurre di 0,2°C il riscaldamento globale. Purtroppo tra chi non ha firmato l’impegno ci sono anche dei “pesi massimi” nelle emissioni di questo gas: Cina, India e Russia, i tre principali produttori di metano al mondo, anche se la Cina ha affermato che vuole «sviluppare un proprio piano d’azione nazionale completo e ambizioso».

L’impegno degli oltre 100 paesi è stato comunque criticato per non essere vincolante e per la mancanza di obiettivi e modi concreti con cui i firmatari arriveranno a realizzare i tagli promessi. Tuttavia l’obiettivo è realizzabile con le conoscenze esistenti e con un costo minimo se non addirittura nullo.

Tutta la tecnologia per ridurre drasticamente le emissioni consiste principalmente nel fermare le perdite dall’industria dei combustibili fossili, che da sola potrebbe ridurre le emissioni globali di metano del 25 per cento in modo del tutto gratuito.

Oltre ai combustibili fossili, il resto della riduzione può provenire da altre tecnologie esistenti, come la cattura del metano prodotto dalle discariche, il drenaggio periodico delle risaie e l’alimentazione di integratori per le mucche che sopprimano la produzione di metano. Ci sono poi tecnologie che si stanno sviluppando, come la cattura diretta dell’aria del metano.

La nascita della vita

Come è nata la vita nell’universo? E sulla Terra? Domande che ancora oggi sono senza risposta. Senza dubbio l’esperimento più famoso per tentare di ricreare la vita è stato quello di Stanley Miller e Harold Urey del 1952.

In quell’anno, all’Università di Chicago, i due ricercatori hanno simulato quello che per loro doveva essere l’ambiente terrestre di 4,6 miliardi di anni fa per studiare l’abiogenesi, ossia la sintesi naturale di molecole organiche come gli aminoacidi e le basi azotate (i mattoni delle proteine e del dna/rna rispettivamente).

L’esperimento è stato realizzato in un’ampolla di vetro sigillato dove all’interno hanno posto gli elementi che ricreavano l’atmosfera primordiale, poi hanno messo dell’acqua e con scariche elettriche hanno simulato i fulmini.

Al termine dell’esperimento, hanno trovato vari amminoacidi, il che ha dimostrato che i precursori della vita avrebbero potuto emergere in un simile “brodo primordiale”. Ma oltre a ciò Miller ha notato anche la presenza di silice, l’elemento che costituisce il vetro, ma non ha dato alcun peso alla sua presenza.

Eppure «nella scienza non bisogna dare nulla per scontato», spiega Raffaele Saladino, dell’Università della Tuscia e presidente della società italiana di astrobiologia. Perché Saladino è voluto tornare su quelle conclusioni? Per capirlo bisogna ricordare che in lavori precedenti aveva scoperto che la silice e i suoi minerali, in una soluzione simile a quella di Miller, avrebbero potuto facilitare il processo.

Così hanno deciso di ripetere l’esperimento di Miller usando tre contenitori fatti di materiali con diversi pH, ossia con diversa acidità: vetro borosilicato o pyrex (lo stesso materiale usato da Miller), teflon, che è un materiale inerte, e teflon con alcune parti di borosilicato in soluzione. I risultati hanno confermato che la materia organica faceva la sua comparsa in ogni contenitore, indipendentemente dal pH, ma il contenitore di teflon conteneva il minor numero di composti, seguito da quello con parti di vetro.

L’abbondanza di molecole organiche nel contenitore di pyrex – 56 tipi diversi, compresi aminoacidi e basi azotate – è stata notevole, e alcune molecole apparivano solo nel vetro borosilicato, rivelando l’importanza dei minerali come ingredienti nascosti per i precursori della vita.

«Questo ha senso, se vogliamo simulare uno scenario realistico», spiega Saladino, «perché avremmo l’atmosfera, l’acqua, i fulmini, ma quello che ci mancava era la roccia contenente l’acqua". Un rinnovato interesse per l’abiogenesi potrebbe aiutare la ricerca della vita su altri pianeti.

«La complessità di una molecola non garantisce che sia stata prodotta da processi biologici», osserva Saladino. «Se noi siamo stati in grado di creare una tale ricchezza molecolare con un singolo esperimento, allora trovare molecole come la glicina o la fosfina su altri pianeti non implicherebbe necessariamente che siano state sintetizzate da un organismo vivente».

Studi futuri testeranno quali molecole possono emergere in un ambiente come quello di Miller-Urey utilizzando diversi minerali e atmosfere aliene. Le complesse indicazioni che usciranno da questi esperimenti permetteranno di guardare meglio nelle atmosfere di altri pianeti, solari o extrasolari, per cercare reali molecole prodotte dalla vita.

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