Dai saloni aristocratici di Parigi all’offerta delle enoteche italiane. il cambiamento sociale ed economico ha trasformato il modo di mangiare fuori casa, tra nuovi format condivisi, inflazione e voglia di sperimentare
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
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Era il 1810, a Parigi, quando una cena organizzata dall’ambasciatore russo Alexander Kurakin segnò una svolta nella storia della ristorazione europea. Gli invitati, nobili profumati di polvere di rosa, seduti in un salone affrescato sotto lampadari di cristallo, rimasero spiazzati: sulla tavola non trovarono più la moltitudine di piatti serviti contemporaneamente, come imponeva il service à la française allora dominante.
Al contrario, i piatti arrivarono uno dopo l’altro, con un ritmo nuovo e teatrale. Kurakin aveva appena introdotto in Francia il service à la russe, un modo di concepire il pasto che spezzava la simultaneità caotica dei banchetti aristocratici e introduceva una scansione moderna, ordinata e narrativa. Quel paradigma, destinato a diffondersi nelle corti, negli hotel e nelle cucine borghesi d’Europa, oltrepassò presto le Alpi per approdare in Italia.
Qui, nell’Ottocento, la borghesia emergente adottò quel ritmo cadenzato: prima l’antipasto, poi la minestra o la pasta, quindi carne o pesce e infine il dolce. Una struttura che trovò la sua codificazione definitiva con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891) di Pellegrino Artusi. Fu così che nacque quella che oggi riconosciamo come la sequenza tipica del menù italiano — un modello che, però, sta cambiando, spinto sia da fattori economici che dall’influenza di altre culture.
Un tempo dominato da formati ben definiti (dal ristorante di lusso alla trattoria tradizionale), il panorama della ristorazione in Italia vede oggi l’ascesa di nuovi format. Queste tendenze, esplose nell’ultimo decennio, sono il sintomo di mutamenti sociali ed economici più ampi: la risposta a un potere d’acquisto eroso, al desiderio di convivialità (sharing is caring) e alla necessità per i ristoratori di adattarsi a un mercato in rapida evoluzione.
In ultima istanza, rappresentano anche una rilettura contemporanea di antichi riti di condivisione, molto radicati nel Dna culinario italiano.
L’erosione del potere d’acquisto
Negli ultimi anni il modo di andare al ristorante è cambiato parecchio. A pesare è stata soprattutto l’inflazione, che pur avendo rallentato nel 2024 ha continuato a farsi sentire: i prezzi nei ristoranti sono cresciuti in media del +3,2 per cento nel 2024 e di un ulteriore +2,9 per cento a luglio 2025. E non è finita qui: il cibo al dettaglio è aumentato del +2,4 per cento nello stesso anno, rendendo il carrello della spesa sempre più caro per molte famiglie.
A questo si aggiunge un altro dato che pesa come un macigno: i salari reali in Italia sono praticamente fermi da decenni, e anzi si sono ridotti dello 0,2 per cento annuo. Un unicum tra i paesi Ocse. Tradotto: le famiglie hanno meno soldi da spendere, e questo si riflette subito sulle spese “non necessarie”, come le cene fuori. Perciò, quando si decide di uscire, ci si aspetta un’esperienza che valga la spesa. Qui entrano in gioco i “piattini”, molto diffusi soprattutto nelle enoteche con vini naturali delle grandi città (Milano in testa), che offrono un vantaggio chiaro: invece del conto impegnativo di un pasto completo, permettono al cliente di costruirsi la propria esperienza modulando il budget, assaggiando cose nuove senza l’ansia di dover scegliere un piatto unico da 25 euro.
Il modello è sicuramente stato ispirato da altre culture — le meze tipiche dei territori dell’ex Impero Ottomano, o le tapas spagnole — ma ha anche radici tutte italiane: dai cicchetti veneziani alla merenda sinoira piemontese.
«Ma gli antipasti all’italiana sono i veri precursori di tutta questa moda» osserva Shkembor Beshaj, giovane e talentuoso chef del Club Giovanile Milano. «La nuova tendenza di condividere tutto va di pari passo con la perdita di potere dei nostri stipendi, ma dire che è solo quello è banalizzare, c’entra anche il fatto che le persone sono diventate più curiose e vogliono assaggiare più pietanze possibili di ciò che un ristorante può offrire.
Come cuochi e chef ci siamo adattati un po’ tutti, entrambe le modalità hanno i loro pro e contro: fare tanti piattini non aiuta a creare identità se non quella che fai tanti piattini, e non farli ti rende troppo rigido. Come sempre la migliore opzione sta nel bilanciare entrambe le cose, per esempio noi da Cgm lanceremo a breve un menù condivisone a prezzo fisso, sui 50 euro, dove abbiamo spazio di fare entrambe.
Resta il fatto che sia per gli addetti ai lavori e sia per gli ospiti è una vittoria poter assaggiare tanti piattini in posti diversi — occhio però sempre ai prezzi giusti!»
Il trend non nasce solo dal lato della domanda, ma anche dai vantaggi concreti per i ristoratori: a differenza di un menu tradizionale, basato su portate complete, il formato dei piccoli piatti riduce drasticamente gli sprechi alimentari, abbassando i costi complessivi.
Infatti, la preparazione in porzioni più piccole e controllate permette una gestione più efficiente del magazzino e una minore necessità di acquistare ingredienti in grandi quantità; questo si traduce in una maggiore flessibilità, offrendo allo chef la libertà di sperimentare con ingredienti freschi e di stagione provenienti da fonti locali, senza il rischio finanziario di doverli acquistare in grandi quantità. Inoltre, il ristorante può rinnovare il menù più spesso per seguire le tendenze e offrire un’esperienza dinamica e unica, fattore cruciale per la competitività in un mercato affollato.
Apericena vs Piattini
Occhio però a non confondere il fenomeno dei piattini con quello dell’apericena. Quest’ultimo è un neologismo nato a Milano a metà anni Novanta (fusione di “aperitivo” e “cena”), poi diffusosi un po’ ovunque in Italia. Prima della pandemia significava buffet libero a prezzo fisso, poi si è trasformato in drink accompagnato da un piatto più o meno abbondante di stuzzichini. In entrambi i casi il focus era la quantità e la convenienza, non tanto l’esperienza gastronomica.
Il modello dei piattini è un'evoluzione più raffinata e mirata all’esperienza, meno orientata al mero riempimento del pasto e più focalizzata sull'assaggio di una varietà di sapori e texture. La differenza non è solo nel formato, ma anche nel significato culturale e sociale che i due fenomeni hanno assunto nelle abitudini di consumo: mentre l’apericena di fatto è un'alternativa funzionale alla cena, i piattini sono più in linea con un pubblico da grande città che cerca la novità, non vuole abbuffarsi e frequenta solo certi locali.
Tra ibridi e limiti del format
Oggi, molti locali delle grandi città scelgono formule miste: piccoli piatti da dividere accanto a primi e secondi più classici, per soddisfare sia chi vuole condividere sia chi preferisce una portata tutta per sé. È il caso di Nino – Osteria con cucina, la nuova apertura a Milano firmata da Diego Rossi, Josef Khattabi e Enricomaria Porta, che propone proprio questa doppia modalità.
Non tutti, infatti, vedono i piattini come il futuro assoluto. «Secondo me il trend ha già raggiunto la sua maturità e sta mostrando i suoi limiti» spiega Antonio Crescente, che con il suo Palinuro Bar (zona Piazzale Loreto) è stato tra i primi a puntare sul format. «Condividere un piattino in sei non è l’ideale: tra coltelli, cucchiai e tavolini piccoli diventa complicato.
Per questo oggi abbiamo sostituito molti piattini con paninetti e toast di qualità, più adatti a un bar e capaci di trattenere i clienti per tutta la sera. Io penso che la vera identità italiana stia nel piatto singolo, fatto bene e confortevole».
Alla fine, piattini o piatto unico poco cambia: quello che conta è che la ristorazione italiana continua a sperimentare, adattarsi e mescolare formati. E se il confine tra apericena, sharing e cena tradizionale si fa sempre più sfumato, forse è proprio lì che sta il bello, nella libertà di scegliere ogni volta come e cosa mangiare, senza pressioni e — auspichiamo — senza sprechi.
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