Un autore nel pieno di un blocco creativo tra isolamento, rancore e allucinazioni. Una creatura emerge dallo scarico come il riflesso più sincero di sé, è il lento risveglio di un mostro interiore
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
Non riesco più a scrivere, non vedo nessuno – amici, parenti, gente del lavoro. Non vedo un futuro. Ghosto, blocco, lascio suonare il telefono a ripetizione nel languore delle tante giornate di intenzioni inevase. Annullo all’ultimo gli appuntamenti, difficilmente metto piede fuori di casa. I soldi sul conto corrente continuano a diminuire, ma non so come invertire la rotta. L’unica cosa che mi dà un po’ di pace, quest’anno, è il tempo che passo chiuso in bagno a parlare con lei.
All’alba e alla sera tardi, quando il mio ragazzo dorme o è fuori città: inginocchiato sul pavimento, nel silenzio della vita che si ferma, racconto alla bambina del water perché tutto attorno a me sembra crollare. Ogni sua visita è introdotta da un odore dolciastro: fiori marciti, profumo scadente mischiato a muffa. Il segnale che sta per arrivare. All’inizio, dal sifone, è apparsa solo una ciocca di capelli, serpentina, fluttuante, accompagnata da bollicine intermittenti verso la superficie. Poi uno spicchio di fronte. Fino agli occhi, bombati e bluastri, da gambero. Dritti nei miei.
Confessioni
I primi giorni ero convinto fosse tutta nera. O comunque scurissima. Un’unica massa indistinta a fare capolino dallo scarico, stile feto al momento del parto. Ma era l’ombra a interferire. In realtà è verde, diverse tonalità: pelle, capelli, labbra, denti. Un verde vegetale e traslucido, più che animale, una piccola bambina alga. A lei racconto dei libri che ho scritto, del paio d’anni di popolarità – molta gente che mi fermava per strada: commozione, abbracci. Che bella persona, ti voglio bene. Poi il secondo libro non ha ripetuto il miracolo. Prevedibile, in linea con le statistiche – il secondo album, il secondo tutto. È il movimento complessivo che conta, le varie tappe, dico, sento dire. Ma un conto è saperlo, un altro vederlo accadere. Un dirigente della casa editrice che mi confessa: un po’ troppo alto, intendendo: cervellotico, seghe mentali. Gli ammiratori in giro (ora sporadici) dicono di aver molto amato il mio romanzo – uno, al singolare, sono autore di un solo libro. Quand’è che ne scrivi un altro?
Così sono quasi quattro anni che rimando la stesura del terzo. Ho paura di sancire una volta per tutte la mia fine, dimostrare che sono stato effettivamente un bluff. Il derelitto che ha pubblicato un lungo post di Facebook (più volte, tra i commenti: gliel’hanno scritto, si vede la mano del ghost), l’egoriferito senza più niente da dire. Rimando a oltranza il progetto del libro ma, attenzione, qualcosa ogni tanto faccio: non è raro che mi contattino per articoli, recensioni, editoriali. Il gay che parla dei gay, il costo degli affitti, il disagio in periferia. Neorealismo millennial. Vivo al traino, con le mie prestazioni reagisco ai bisogni degli altri: incastrato nella ruota digitale, che esige cascate di contenuti identici ogni minuto, assecondo il po’ di visibilità che mi resta, mentre sento che tutto sfuma, perde importanza.
Non so più chi sono, non so più cosa voglio. Pianifico di mollare, ricominciare altrove: un agriturismo vegano sui colli dove insegnare yoga, cartomanzia telefonica coi numeri a pagamento, buttarmi in politica.
Rivolto al mio ragazzo: e se ci trasferissimo in Canada? Un vecchio coi soldi che mi mantenga, un benefattore da intenerire – nipote misto marchetta. Ci penso ogni giorno, ogni ora, ma non ne parlo con nessuno, fuorché con lei. La bambina verde nell’acqua di scarico è la confidente segreta che ascolta a lungo senza interrompere: per un po’ si è trattato solo di questo. Poi ha iniziato a rinforzare i miei lamenti con sussulti di assenso, sbuffi sommersi, gorgoglii di comprensione. Quasi una canzoncina. Empatica, sadica – divertita? Fino alla prima parola, il mese scorso, incomprensibile. A cui sono seguite brevi frasi che, giorno dopo giorno, ho iniziato a decifrare sempre meglio. Nella forma, ma non nel senso. Cose del tipo (le ho ovviamente trascritte): il sovvertimento, la muta – nel giorno stabilito incontrerai la fiducia, nel lago vi è fuoco. Oppure: la dissoluzione, riuscita, il re si avvicina al suo tempio. E ancora: verità interiore, porci e pesci, salute!
Di lei vedo solo il viso, anzi: una parte. Resta sempre sott’acqua, protetta dal tubo. Non ho idea di come sia il suo corpo, per quel che ne so potrebbe anche esserne priva. Senza arti, come un pesce palla, vescica vivente. Eppure, in lei, qualcosa mi è famigliare, come se l’avessi già vista – per giorni mi ripeto nella mente. Finché una mattina, nel dormiveglia, mi sono ricordato di Jenny.
Come una fata
Nel libro illustrato delle fate, che adoravo, da piccolo, la figura che mi aveva colpito di più – quella che ho contemplato, ricalcato, omaggiato nei disegni per anni – era questa specie di mostro della palude, l’orrida ninfa che catturava i bambini e li trascinava con lei nelle profondità, affogandoli. Ecco a chi somiglia. Jenny Dentiverdi, una delle creature evocate dalle madri inglesi – specie delle zone di Liverpool, recupero dettagli – per far sì che i più piccoli stessero alla larga da stagni e acquitrini. Non ho potuto fare a meno di pensare alla fossa melmosa sulla quale io, ormai da tempo, sento di essere affacciato. In molte forme e declinazioni: il sogno/paura che qualcosa arrivi a risucchiarmi. Tutti i modi in cui vorrei farla finita.
I suoi occhi sferici mi fissano gommosi, mentre le dico che non ce la faccio più, sono stanco. Non ho mai sognato di fare lo scrittore, capisci? O meglio: l’ho sognato come altre venti, trenta cose. Il pittore, il cantautore, il filosofo, giornalista, parrucchiere, tatuatore, insegnante, monaco francescano, naturopata, danzatore, parlamentare, poeta, medico di pronto soccorso, antropologo, regista. Come si fa a sentirsi una cosa sola? Sono privo di vocazione, chiamata, fedeltà. ADHD, Gemelli con Luna in Ariete, multipotenziale, annoiato cronico.
Ci sono giorni in cui ho bisogno di passare tre ore al supermercato e poi cucinare, altri in cui studio la tecnica astrologica – transiti, sinastria, rivoluzione solare, altri ancora in cui seguo lezioni che non c’entrano niente col mio lavoro – meditazione, illustrazione a china, il tema della sventura nell’opera di Simone Weil. Solo che, quando apro i social, mi imbatto in schiere di autori – giovani e meno giovani – determinatissimi, che passano il tempo a estendere, con favori e lusinghe, il cerchio magico delle conoscenze, funzionale nel consolidarne il profilo e propiziare la performance delle uscite editoriali future.
Implacabili e univoci, mono-direzionati, algoritmici: fanno i simpatici per assicurarsi recensioni, intervistano e lodano tutti gli altri scrittori – tutti quanti, senza affinità, predilezione – come modello promozionale in incognito. Sovraestensione della mentalità del pierre, millimetrica coincidenza tra amicizia e ufficio stampa. Com’è che la gente non se ne accorge? O forse l’incastro è reciproco, mi dico: trattasi di scambio. Non è raro che la cosa prenda una piega volutamente ambigua, ormonale: il trentenne che solletica la romanziera che potrebbe essergli madre/nonna, l’ambiziosissima semi-esordiente che mina coppie storiche.
Alleanze siglabili a letto – concludo: gira così dappertutto. Io stesso, a volte, sono finito oggetto di tentativi di seduzione strategica. Ehi baby, reazione con la fiamma. Cuori su cuori, che figo che sei in questa foto – mi passi il contatto di quello e quell’altro?
Come posso competere, sperare di non finire a brevissimo nel dimenticatoio? Troppi e troppo affamati, monotoni, concentrati: invidio la loro capacità di scordare la grandezza del mondo, la loro frenesia, l’estroversione. La bambina verde mi guarda e basta, non mi asseconda né smentisce, mentre nel mio resoconto ammucchio esempi, nomi, episodi. Non ce la faccio più, voglio cambiare ambiente, le dico, fare qualcos’altro. D’altronde, di interessi ne ho molti.
Il desiderio
Avanzo e insisto, collo proteso, mani arpionate alla tazza: ti rendi conto? Lei sporge fuori dall’acqua la bocca affollata di denti acuminati, e replica, con un sibilo gassoso: cosa vuoi che faccia? È la prima volta che mi offre una corrispondenza chiara, dialogo simmetrico, non so come reagire. È un’offerta di aiuto? Potrei chiederle cosa intende, andare a fondo, ma chiudo l’asse e scappo via nell’altra stanza, senza rispondere. Hai visto un fantasma?, chiede il mio ragazzo dal letto, sopra il soppalco, appena sveglio. C’era un ragno gigante, rispondo, una cosa mai vista. L’avrei portato fuori ma si è infilato nella grata della ventola. Ah, poverino, borbotta, e si rimette a dormire. Io non aggiungo altro. Cosa vuoi che faccia – l’offerta della bambina mi picchietta nella testa. Una sola cosa? Posso davvero chiedere tutto? Vincere il premio più ambito, pubblicare un best seller, diventare famoso a livello internazionale, un film campione di incassi tratto da uno dei miei libri: passo in rassegna le fantasie più sfrenate, le benedizioni per cui qualunque scrittore – specie italiano – venderebbe madre, padre, consorte, la dignità, l’uso delle gambe.
Io voglio che muoiano tutti – le dico, poco dopo mezzanotte, al solito in ginocchio, modalità geisha nella foresta delle ombre create dalla torcia del cellulare. E le recito come una preghiera, lenta e scandita, la lista degli autori che giocano sporco, il nutrito elenco di quelli che sono diventati, in questi anni, la mia ossessione. Quelli che porto con me in terapia, ogni settimana. E non perché talentuosi, sia chiaro, ma perché sanno andarsi a prendere le cose ambite. A differenza di me, che aspetto sempre di essere scelto. Distraendomi, nel mentre, con tutto quello che mi incuriosisce. E quindi intralcia, dirotta. Una psicologa della Gestalt tempo fa me l’ha detto: dobbiamo sviluppare l’esperienza dell’ad-gredere, andare verso l’altro e l’ambiente, soddisfare le proprie esigenze. Ad-gredere, aggredire: a rovinarmi tutto sono questi specialisti dell’aggressione. Se non esistessero più, io saprei funzionare: il nuovo libro, l’ispirazione, riguadagnare il mio pubblico. Si tratta solo di rimuovere l’ostacolo, sradicarlo, annientarlo. E, nello specifico, sradicare, annientare queste calcolatrici fuori controllo, smaniose, pronte a tutto. Accattoni dall’abbraccio facile, adulatori seriali. Mediocri su mezzi corazzati, idioti inarrestabili. Va bene, piccolo mio, dice la bambina, di colpo sembrando vecchissima e meno umana. Dall’acqua gorgogliante del water: va bene.
La pelle verde piena di grinze, organo interno rinsecchito: la pozza si intorbidisce e l’odore muschiato mi si infilza nel naso, mentre un verso, che non è più la sua voce, grugnisce: sta già accadendo. E scivola via, sparendo nel tubo.
Bambina mia
Succede davvero: nel giro di un mese uno a uno cadono tutti. Incidente notturno in tangenziale, malattia fulminante, sparizione incomprensibile – con relativo passaggio a Chi l’ha visto? Sui social sempre più spesso leggo nei commenti: un altro talento che ci lascia troppo presto. Oppure: ancora uno scrittore, com’è possibile? Lo so io com’è possibile, lo so ed è da qui che si riparte. Il vuoto che lasciano queste vite spezzate è quello in cui torna a sbocciare la mia creatività. Un punto e si va a capo. Giravolta del cuore: attacco a scrivere al mattino alle cinque e vado avanti fino all’ora di cena. In venti giorni finisco il terzo romanzo e inizio il quarto. In un momento di grazia abbozzo la struttura del quinto. Eccomi: enorme, abbagliante. Come potevate pretendere che una supernova vivesse dentro uno sgabuzzino? M’immergo nel flusso di cui io stesso sono la fonte, questo è il modo in cui è fatto un artista: origine e benefattore della stessa materia lucente. L’unica ansia che adesso ho è quella dello stare dietro alle intuizioni narrative. Niente più angoscia, depressione: la bambina del water smette di venirmi a trovare.
Scrivo e vivo, scrivo perché finalmente sono tornato in vita: tutto sfreccia di nuovo naturale e perfetto nei cunicoli della mia mente. Al cento per cento dentro la mia pelle – quello che nessuna psicoterapia/psicofarmaco ha mai ottenuto.
Fino a quando mi rendo conto dell’imperdonabile dimenticanza. Una mattina come le altre, scorrendo le storie di Instagram lo vedo. NO. Il solito sorriso smagliante da assicuratore in tournée, piazzista perenne. NO. Come ho potuto lasciarlo fuori dalla lista? No, no, no – passo la giornata a recuperare tutta la sua attività online recente, i post strategici, i like messi a ogni singolo contenuto fatto da gente dell’editoria. L’esca e l’amo, tenere agganciati, non farsi dimenticare. Non scrivo più: devo vedere, sapere, controllare ogni mossa. Lo sento arrivare, salire di grado, ascendere. Il nemico conquista di ora in ora centimetri in più del tavolo da gioco. Rapace, predatorio – quanti ci cascano. Quanti non sanno: pericoloso non è chi morde, ma chi lecca. Quanti non vedono la furia brutale che cova dietro l’amicone, la bocca spalancata che ci mangerà tutti.
Aspetto l’immobilità della notte e spero lei torni da me un’ultima volta. Accovacciato accanto al gabinetto invoco il suo aiuto. Un’ora, due, tre. Ti prego, solo questo, dico. In fondo era parte del desiderio: sistema anche lui, per favore. Ti imploro, scongiuro. Ma qui parlo da solo. O forse no. Ci sei, mi senti? Il sospetto che stia ascoltando tutto, nascosta, cattiva. Infilo la mano nel sifone, e poi il polso, il braccio. Spingo fino al gomito, penetro, affondo, potessi fino alla spalla – non mi fermo neanche quando l’acqua si colora del rosso delle escoriazioni, le strisce di pelle strappata. Se non avessi le ossa: dentro tutto, sottoterra fino a riprenderti, piccola serpe, aborto capriccioso senza pietà. Costringerti a capire che è stato solo un errore, un piccolo sbaglio. Una persona, autore, scrittore, può permettersi di sbagliare? Se solo la vita non ci inchiodasse agli sbagli. La pelle gratta inutilmente contro l’interno granuloso del tubo di scarico. Acqua, solo acqua. Di lei non c’è più traccia. Afferro, arpiono nel vuoto. Acqua solo acqua – per terra, nel muro, sulla mia faccia. Fogna, lacrime, fili di saliva. Bambina mia, dove sei andata?
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