Questo 15 settembre per la politica europea è forse il giorno più importante dell’anno. Sicuramente lo è per Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea, che a Strasburgo davanti agli eletti europei tiene il discorso sullo stato dell’Unione. Negli Stati Uniti, dove la tradizione dello “state of the Union” è nata nel 1790 con George Washington, questo è il momento unificante della nazione da quando esistono i mass media. L’Ue non è ancora una nazione, ma per la presidente si tratta di fare un bilancio del proprio governo nell’anno appena passato, e di tracciare anche l’agenda di quello che verrà. Con le parole che pronuncia, von der Leyen si gioca parte del suo capitale politico. Ma una fetta ancor più importante della sua credibilità dipende dai fatti che seguono le parole. E il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato un anno fa rimane per lo più un elenco di promesse incompiute o tradite.

Dalle parole ai fatti

Una ricognizione fatta dal servizio ricerca del parlamento europeo (Eprs) assegna anche un numero alle parole rimaste sulla carta: rispetto alle oltre quattrocento iniziative preannunciate, soltanto metà sono state avviate; e di questa metà, solo metà è diventata effettiva. L’analisi quantitativa ci racconta quanto è indietro l’azione politica, ma c’è anche un altro genere di tradimento: non le cose ancora da fare; i fatti che vanno in tutt’altra direzione rispetto agli annunci. Dall’ambiente alla salute passando per la tenuta democratica dell’Unione, non si può dire che von der Leyen abbia mantenuto le promesse. Nell’autunno 2020 la presidente imperniò tutto il discorso sull’idea di una «Europa infragilita, fragile»; un anno dopo, quella constatazione pare riferirsi alla sua stessa guida.

Il clima non cambia

C’è una cosa su cui gli europei e la presidente sono in sintonia: per entrambi, il clima è la priorità. Tra gli argomenti da affrontare con più urgenza, stando a un eurobarometro il cambiamento climatico sta a cuore a un italiano su due e quattro europei su dieci. Per dare una proporzione, i diritti umani sono la priorità solo per due su dieci. Sin dal discorso di insediamento del 2019, che proiettava una agenda politica da lì al 2024, von der Leyen ha messo il Green deal davanti a tutto, almeno in teoria. Nella pratica, c’è un motivo se gli attivisti come Greta Thunberg e Greenpeace hanno così di frequente protestato contro Bruxelles. La presidente ha annunciato una riduzione delle emissioni al 55 per cento entro il 2030, ma per gli ambientalisti il minimo per allinearsi agli accordi di Parigi sarebbe stato almeno il 60. Anche le riforme hanno deluso. Quella che doveva essere una nuova politica agricola comune, attenta all’ambiente, non è poi così diversa dalla vecchia; tanto che i Fridays for Future hanno chiesto per mesi di stracciarla e ritentare meglio. Il pacchetto “Fit for 55”, che dovrebbe rivedere le politiche energetiche e climatiche su scala europea, è inadeguato per Greenpeace, e quanto alla distanza tra annunci e fatti, “mind the gap”: è l’hashtag, e la bocciatura, di Greta Thunberg. I dati dicono pure che, tra le 90 proposte legislative annunciate nella cornice del Green deal, solo 15 sono state adottate, e solo un terzo sono state anche solo calendarizzate.

Le diseguaglianze

Eppure, «non è il Covid a frenare il green deal, anzi», nota Eprs: «Gli strumenti di Recovery consentono progressi sul clima». Il vero grande passo avanti dell’Ue, nei tempi di von der Leyen presidente, è proprio Next generation Eu. Ma avere più soldi da spendere non implica automaticamente una riduzione delle disuguaglianze. La confederazione dei sindacati europei (Etuc) sta pubblicando il suo “stato dell’Unione alternativo”, e da questa fotografia dell’Ue viene fuori che nell’ultimo decennio il divario tra i più ricchi e i più poveri non ha fatto che crescere. Tra le promesse di von der Leyen c’erano «una economia che funziona per le persone», sostegno all’occupazione, ammortizzatori sociali, un salario minimo d’Europa. Sono state mantenute? Luca Visentini, segretario generale di Etuc, dice che «la Commissione ha effettivamente presentato, anche se in ritardo, la proposta di direttiva su trasparenza salariale e parità di genere; si è attivata per il pilastro sociale e ora ci aspettiamo che vada avanti con le iniziative per i lavoratori delle piattaforme, il diritto alla disconnessione e la responsabilità di impresa». Ma il contraltare di questi piccoli progressi è «che nei piani di Recovery manca la condizionalità occupazionale: l’Ue non ha vincolato i fondi al rispetto di precise garanzie su nuovi posti di lavoro». Anche la transizione digitale e verde avviene «in un’ottica di fondi di compensazione per i posti di lavoro che andranno persi, e non con un piano industriale che garantisca nuova occupazione».

Diritti e salute

«Promuovere uno stile di vita europeo», rafforzare la democrazia: anche queste erano le priorità di un anno fa. L’autunno scorso, con la crisi umanitaria a Lesbo, la presidente annunciò una riforma radicale del sistema di Dublino. Concretamente, il nuovo patto per migrazione e asilo, l’esternalizzazione dei rifugiati e gli ulteriori soldi alla Turchia, i coinvolgimenti dell’agenzia Frontex nei respingimenti illegali, i nuovi muri, l’idea di riformare Schengen, mostrano che quella di von der Leyen è una Europa che respinge. Anche dentro i confini europei, il rispetto dello stato di diritto è sempre più compromesso, ed è stato necessario che l’Europarlamento minacciasse di portare la Commissione davanti alla Corte di giustizia europea per costringere il gabinetto von der Leyen a intervenire finalmente nei confronti di Polonia e Ungheria. Anche la gestione della pandemia ha portato a uno scontro inedito fra istituzioni: la Commissione, che prefigura da un anno una “Unione della salute”, intanto costruisce le scelte sulla salute in un clima di opacità; ha tenuto all’oscuro gli eurodeputati sui contratti per i vaccini, e intende esautorare gli eletti anche dalla futura governance sanitaria (con “Hera”). Forse von der Leyen si riterrà sollevata dagli imbarazzi, oggi: dopo i gravi ritardi nella distribuzione dei vaccini, ha raggiunto l’obiettivo dichiarato del 70 per cento di vaccinati in Ue. Ma aveva promesso anche «accesso globale» ai vaccini, invece continua a tradire la richiesta degli europarlamentari di liberare i brevetti dei vaccini.

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