Il cantautore torinese torna a Sanremo dopo il fortunato esordio che lo ha visto vincere il premio della critica Mia Martini. «Usare l’arte, la musica, solo come mezzo per fare soldi, fa perdere il significato di tutto», racconta presentando il suo Grazie ma no grazie. «La ricerca spasmodica del consenso ci ha portato a perdere originalità. Spero che i giovani, allontanandosi da quest'ansia del consenso a tutti i costi, possano uscire un po' dagli schemi»
«Cosa mi aspetto da questo Sanremo? Un po’ di leggerezza». Willie Peyote sul palco dell'Ariston è già salito. Un esordio fortunato che gli ha permesso di portarsi a casa il premio della critica Mia Martini per un brano, Mai dire mai (la locura), che puntava l’attenzione sui lavoratori dello spettacolo fermi da più di un anno, quelli che avrebbero voluto lavorare, ma che non potevano. Perché gli eventi live erano ancora proibiti, mentre il festival della pandemia, in presenza ma a distanza, andava avanti con gli artisti barricati in albergo.
Willie Peyote, torinese con una formazione a cavallo tra rap, rock e punk, torna a Sanremo dopo due tour, un album, Pornostalgia, e un Ep che è solo la prima parte del disco con cui andrà a chiudere la sua “trilogia sabauda”, apertasi con Educazione sabauda e Sindrome di Tôret. L’ultimo singolo pubblicato, Chissà, è il frutto di una collaborazione con Ditonellapiaga.
Il suo Grazie ma no grazie, è stato descritto da tutti i critici come l’unico “politico” tra tutti i brani in gara.
Non so se definirlo politico, anche perché tutti danno un’accezione diversa a questo termine. Però ha qualche riferimento di critica sociale, quello sì. Lo faccio sempre nelle mie canzoni e mi sembrava un po’ uno spreco salire su di un palco come quello di Sanremo senza dire qualcosa. Non vado sempre al festival, non smanio per andarci, ma se sono lì qualcosina la voglio dire. Sempre cercando di metterci dell’ironia, anche se rischia di non essere capita.
Infilandoci i Jalisse, come ha spoilerato Carlo Conti.
Me lo stava spoilerando un po’ tutto il brano, deve essergli piaciuto.
«Dovresti andare a lavorare e non farti manganellare nelle piazze» è un passaggio del suo brano. Il ddl sicurezza contiene delle norme, come quella che sanziona anche le proteste pacifiche, la cosiddetta norma anti Gandhi. È preoccupato per la situazione che si sta delineando in Italia?
Io mi preoccupo sempre quando si tenta di limitare il dissenso. È un processo lento ma costante. Ma noi, per primi, abbiamo perso il valore della protesta e della manifestazione. C’è una frase che si sente dire spesso: “Gli scioperi si fanno solo il venerdì, così si allunga il weekend”. Questo tipo di approccio alle proteste è solo l’inizio del declino di un popolo. Quando non ritiene più importante avere spazio per dimostrare il proprio dissenso si silenzia da solo. Ed è sempre un problema.
Il suo nuovo brano inizia con: «Ma che storie triste avevo aspettative basse e sai già come finisce visto da dove si parte». È un verso che riprende un concetto già espresso nel suo libro: «In un ambiente in cui vedi che nessuno ce la fa davvero, più difficile convincere se stessi che volere è potere».
La narrazione del “volere è potere” è stata dannosa. Soprattutto perché è stata assimilata solo al successo di tipo economico: l’annichilimento completo di tutti noi. Usare l’arte, la musica - ma anche lo sport - solo come mezzo per fare soldi, fa perdere il significato di tutto. Già “volere è potere” è sbagliato. Ma, se poi, il volere equivale solo a diventare ricchi, stiamo facendo di nuovo il gioco di quelli che ricchi già lo sono. Perché, alla fine, se giochiamo alla lotteria, vince sempre solo uno.
La frase tormentone della sua Mai dire mai (la locura) è «Siamo giovani affermati, siamo schiavi del like». Pensa sia cambiato, o cambierà, viste le recenti evoluzioni dell’ex Twitter e di Meta, qualcosa nel rapporto tra le nuove generazioni e i social?
Credo che le nuove generazioni avranno un rapporto diverso con i social. Leggo sempre più spesso di giovanissimi che se ne allontanano. Sono fiducioso del fatto che, magari, nascendoci dentro, avranno una capacità di gestione migliore di quella che abbiamo dimostrato noi e quelli più vecchi di noi.
Adesso è tutto schiacciato sul mainstream. In ogni forma d'arte, dal cinema alla musica. Funziona solo ciò che nasce per funzionare. Questa ricerca spasmodica del consenso ci ha portato a perdere originalità. Spero che i giovani, allontanandosi da quest'ansia del consenso a tutti i costi, possano uscire un po' dagli schemi.
Presentando il suo Giorgia nel Paese che si meraviglia ha scritto: «Basta una scintilla per rianimare la fiamma (rigorosamente tricolore) e farla tornare ad ardere come allora». Insomma, la storia è ciclica. In questo ripetersi della storia vede anche dei barlumi di resistenza (anche nella musica)?
Quando io ero adolescente, la musica che prendeva posizione, anche socialmente, era molto più diffusa ed era molto seguita. Oggi lo è molto meno, ma ci sta, i tempi cambiano. Però, certo, un po' di speranza c'è sempre. Ci deve essere, altrimenti non avrebbe neanche senso continuare a fare musica. Ed è anche necessario ricordare un po' come sono andate davvero le cose e la serie M - Il figlio del secolo va in quella direzione. Ricordiamolo esattamente com’è stato questo passato di cui siamo nostalgici, vediamo se restiamo nostalgici anche dopo.
Ha più volte ripetuto che i rapper di seconda generazione sono più politici delle Posse dei ‘90. La pensa ancora così?
Sono un esempio politico forte. Parlano di cittadinanza, di sentirsi cittadini di serie B. Un tema che la politica e le istituzioni non prendono in considerazione o lo fanno con grande superficialità. Io credo che i ragazzi di seconda generazione, con i loro metodi, col loro linguaggio che magari non tutti riusciamo a capire, stiano portando avanti un discorso che è molto sociale e che è vicino a quelle che erano le istanze con cui il rap è nato in America e in Francia. È molto rap e molto politico, non si può equivocare.
Parlando a Tintoria della sua rivisitazione de Il bombarolo di De Andrè, ha raccontato di averlo ribaltato, «in un viaggio che, forse, nessuno ha capito».
Quel bombarolo era figlio di un’epoca di grandi ideologie. Un bombarolo, oggi, è figlio di un'epoca in cui le ideologie sono completamente morte e quindi non poteva che essere un personaggio capovolto rispetto a quello nato nella scrittura del maestro Faber. Ho solo cercato di rendergli giustizia ponendolo, però, nell'oggi. Chi è che ha tanta ideologia, oggi, in giro per il mondo?
Le destre?
Ecco, appunto. E quindi non poteva essere di sinistra quel bombarolo lì.
Quando parla dei generi che lo hanno influenzato cita sempre anche la stand up comedy, quindi non stupisce che in Fare schifo ci sia Michela Giraud. Ma quel brano ha fatto un giro particolare, dall’omaggio agli Skiantos con Aimone dei Fasks alla filosofia di Tlon.
Quando si allineano così tante cose che seguo mi fa sempre piacere. Sì, ha fatto un grande giro, ma il tema era un po' quello che anche i Tlon affrontano spesso. Quello dell'epoca della performance in cui siamo tutti schiacciati. Dobbiamo performare per forza per raggiungere obiettivi sempre maggiori, nel più breve tempo possibile. Non so se agli altri faccia bene, ma io soffro molto questo meccanismo. Penso che sia una delle cose che ha più compresso le ultime generazioni.
Le anticipazioni che sono uscite per i duetti la vedevano in gara con i Colle der Fomento, storico gruppo hip hop romano noto per il suo purismo. Quanto c’è nella sua formazione di quei gruppi pionieri del rap?
Non so come sia uscita questa cosa. Con Danno dei Colle ci siamo sentiti e ci siamo fatti due risate. Io non gliel’ho chiesto, ma tanto loro non avrebbero accettato. A quei primi gruppi rap devo tantissimo.
Ho lasciato il mio lavoro al call center seguendo il consiglio di Primo dei Cor Veleno e di Tormento che, ai tempi, stavano presentando il loro El micro de oro. Mi dissero: «Se vuoi fare rap nel modo giusto devi farlo con la fame. Finché avrai il culo al caldo, non ti impegnerai fino in fondo». Mi hanno influenzato anche in alcune scelte personali, non solo nella musica. Certo, poi non potrei prescindere da Fabri Fibra e dai Club Dogo. E, quest’anno, sul palco di Sanremo li ritrovo tutti: Torme, Gue, ma anche Neffa, un altro che il rap italiano l’ha creato.
Per la serata dei duetti ha scelto Ditonellapiaga e Federico Zampaglione per un omaggio, tutto romano, a Franco Califano.
Sono molto legato a Roma e alla musica romana. In un tempo piccolo di Califano è uno dei miei brani preferiti. Il testo è un esempio meraviglioso di come i grandi autori siano in grado di coniugare la poesia nel racconto della decadenza della vita umana. Ci tenevo particolarmente a farlo. E ho chiesto a due indigeni della capitale di accompagnarmi.
È convinto che a Sanremo vincerà Elodie, il suo preferito è Lucio Corsi, ma sposerebbe Brunori Sas, perché?
Bisogna scegliere delle persone per bene da avere accanto.
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