Nel film western del 1992 Gli Spietati, Clint Eastwood interpreta Munny, un pistolero che ha abbandonato la strada del crimine per ritirarsi in un’isolata fattoria in cui crescere suoi figli. Ma la vita da contadino è difficile e quando gli si presenta l’occasione di riscuotere una taglia per conto di un gruppo di prostitute, Munny decide di accettare. Alla fine, il vecchio fuorilegge non resisterà alle abitudini del passato. Pur di sfamare i suoi figli tornerà a guadagnarsi da vivere con pistola e fucile.

Clint Eastwood è l’attore preferito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Quando nel 2013, Meloni ha introdotto ai giornalisti il suo nuovo partito Fratelli d’Italia, ha scelto proprio una citazione dell’attore e regista: «Se volete una garanzia compratevi un tostapane». Intendeva dire che la sua nuova formazione sarebbe stata radicale e imprevedibile, l’opposto dei sobri governi di grande coalizione che si alternavano in quegli anni.

Dieci anni dopo, Giorgia Meloni ha cercato di trasformare il suo partito in quel noioso, ma affidabile tostapane che tanto detestava. Ma come il personaggio interpretato dal suo eroe ne Gli Spietati, non è riuscita a sfuggire completamente al suo passato. Ora che i sondaggi iniziano a mostrare le prime flessioni, il partito comincia a dividersi. La linea istituzionale che ha portato il plauso dei grandi quotidiani, l’apprezzamento delle istituzioni nazionali e il rispetto di quelle europee, convince sempre di meno. La concorrenza a destra della Lega di Matteo Salvini spaventa sempre di più e la tentazione di tornare alle vecchie abitudine è sempre più forte. Chiusa la stagione delle nomine nelle grandi società pubbliche, che aveva steso un’artificiale cortina di silenzio sui conflitti di coalizione e quelli interni al partito, si apre una nuovo periodo pieno di incognite. 

Due Fratelli

La scorsa settimana, il governo Meloni ha passato il traguardo dei primi sei mesi. Un periodo celebrato da molti come la dimostrazione che il cambio di linea operato negli ultimi anni era ben più che un’opportunistica strategia elettorale. In questo periodo, l’esecutivo ha approvato una manovra economica ortodossa e rispettosa della disciplina di bilancio – anche se, essenzialmente, ha operato una redistribuzione dai più poveri a favore classe medio alta.

Nonostante i malumori degli alleati, l’esecutivo ha tenuto la barra ferma sulla questione ucraina. Sulla Cina si è allineato agli Stati Uniti e ora sta cercando il modo di sganciarsi dalla partecipazione al grande piano Belt and road, a cui il primo governo Conte aveva associato l’Italia. Con il Quirinale, i rapporti sono di positiva collaborazione. Quelli con il Partito popolare europeo addirittura eccellenti.

Ma sotto la superficie di questa pace conservatrice, si agitano i borbottii sovranisti. A novembre, lo scontro tra Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron, ha ricordato i momenti più imbarazzanti del primo governo Conte. La reazione alla tragedia di Cutro, in cui quasi cento persone sono annegate a poca distanza dalle coste calabresi, ha dimostrato in più occasioni la mancanza di tatto e sensibilità non solo del governo, ma della stessa Meloni. La ratifica del Mes rimane un tasto dolente, mentre sui problemi del Pnrr la maggioranza è pronta a fughe in avanti vecchio stile, come la proposta leghista di rinunciare ai soldi che non siamo in grado di spendere. Meloni fatica e rispondere e preferisce restare in silenzio.

A queste difficoltà politiche si aggiungo le provocazioni che arrivano dai colonnelli di Fratelli d’Italia, sintomi di un malumore ancora più profondo. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che dentro Fratelli d’Italia resta ancora oggi uno di quelli che contano di più, è il più attivo su questo fronte. La seconda carica dello stato ci tiene costantemente a ricordare i busti di Mussolini che tiene in casa o le sue controverse opinioni sul periodo della Resistenza, come quando ha definito i soldati del battaglione di polizia militare SS Bozen, uccisi in via Rasella, una «banda di musicisti in pensione».

A volte gli imbarazzi per Meloni arrivano dalla sua stessa famiglia. La scorsa settimana suo cognato, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollbrigida, ha tirato in ballo la “sostituzione etnica”, una teoria del complotto di estrema destra, che Meloni aveva più volte sostenuto in passato, ma che era sparita dal suo linguaggio da quando aveva deciso di trasformarsi.

Il conflitto

Ci sono due letture che spiegano questa contrapposizione, dice uno storico consulente politico del partito, che preferisce restare anonimo per poter parlare francamente. «Da un lato c’è un'abitudine decennale all’opposizione: non è semplice cambiare registro e adattarsi alle nuove circostanze», spiega. Il linguaggio oppositivo e fatto per attirare l’attenzione non è facile da dimenticare una volta arrivati al governo: «Ogni tanto le vecchie abitudine ritornano. Lollobrigida che parla di sostituzione etnica o Donzelli su Cospito: il suo sembrava il discorso di un deputato di opposizione». La seconda spiegazione è che si tratti di un doppio binario voluto per parlare a pubblici diversi: «La premier utilizza toni rispettabili e morbidi, altri invece si lasciano andare e dicono cose che lei non potrebbe permettersi».

Sono due spiegazioni che non si escludono. Tutte le forze politiche cercano di parlare a elettorati diversi nello stesso tempo, soprattutto quando crescono e quando passano dall’opposizione al governo. Ma più è rapida la trasformazione, più eterogenei sono i pubblici, maggiori sono i problemi e i rischi di incidente. 

Fratelli d’Italia è particolarmente esposto a questi problemi. Dal 2019 alle scorse elezioni il partito è passato dal 3 al 30 per cento. Appena tre anni fa era un partito di minoranza estrema ed ora è il più grande del parlamento, una trasformazione a cui non è corrisposto un rinnovamento delle classi dirigenti. Meloni vorrebbe un partito conservatore, ma deve gestire un ceto politico dominato da colonnelli che si sono fatti le ossa negli anni di Piombo e nuove leve selezionate quando Fratelli d’Italia proponeva il referendum sull’uscita dall’euro e il blocco navale, quando invitava l’ideologo di Trump Steven Bannon alle sue feste e aveveva messo nel cassetto la definizione finiana di fascismo come «male assoluto».

L’attuale viceministro delle Infrastrutture e deputato di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, ad esempio, era uno che alle feste si vestiva da nazista. Il manager Claudio Anastasio, nominato dal governo alla presidenza di 3-I, che gestisce i sistemi software di Inps, Inail e Istat, si è dovuto dimettere dopo aver inviato una lettera al Cda in cui citava il discorso di Mussolini sul delitto Matteotti. L’attuale presidente delle Marche, Francesco Acquaroli, partecipava a cene per celebrare la marcia su Roma i cui menù erano decorati con fasci littori, foto di Mussolini e simboli del partito. Le cene sono un punto debole per il partito: lo scorso maggio, il coordinatore provinciale di Napoli, Antonio Rastrelli, veniva pizzicato a Milano insieme ad altri dirigenti in un locale nostalgico e pieno di foto di Mussolini: a settembre è comunque stato candidato ed eletto senatore. Alle elezioni, il partito aveva candidato anche Calogero Pisano, coordinatore provinciale ad Agrigento che su Facebook inneggiava ad Hitler, Mussolini e Putin. Sospeso dal partito è rimasto silenziosamente in maggioranza entrando, ironia della sorte, nel gruppo Noi Moderati. Più si scende dal livello nazionale a quello locale, più questi episodi si moltiplicano. I ranghi del partito, insomma, non somigliano per niente all’immagine che Meloni ne vuole dare a livello nazionale.

Doppia anima

Da quando Meloni ha dichiarato che dentro Fratelli d’Italia non ci sarebbe stato spazio per nostaligici, definiti «utili idioti della sinistra», questi fenomeni si sono ridotti, ma non sono scomparsi. Meloni deve fare i conti con correnti interne che hanno la loro agenda e la loro idea sulla linea che dovrebbe seguire il partito.

«Nel partito c’è chi teme che il riposizionamento conservatore, alla fine, faccia perdere i voti degli elettori storici. Dentro Fratelli d’Italia se ne è già cominciato a parlare», dice il consulente. Viste la brevità delle parabole politiche di oggi, vedi Renzi e Salvini, alcuni avvertono che oggi il partito è al 30 per cento, ma tra uno o due anni la situazione potrebbe essere radicalmente diversa. I primi ad andarsene saranno i nuovi elettori, quelli attratti dal volto rispettabile e moderato. Se però nel frattempo il partito avrà perso anche lo zoccolo duro, cosa resterà di Fratelli d’Italia?

Il presidente del Senato Ignazio La Russa è il più visibile tra quelli che la pensano in questo modo, ma non è il solo. La minoranza interna a Fratelli d’Italia si sta strutturando proprio sull’asse nostalgico/sovranista in opposizione alla linea conservatrice della presidente. Anche volendo, liberarsi di loro non è semplice. Con il loro appeal radicale e i legami con gruppi estremisti, queste correnti sono spesso in grado di mobilitare attivisti e militanti quando servono. Come alle elezioni locali, in cui per farsi eleggere servono migliaia di preferenze.

Alle ultime regionali in Lombardia, ad esempio, l’eurodeputato Carlo Fidanza, storico rivale di Meloni e legato a numerosi gruppi di estrema destra, è riuscito a far eleggere quasi tutti i suoi candidati e ora la sua pattuglia controlla circa un terzo dei consiglieri. In Lazio, ha avuto risultati simili Fabio Rampelli, un altro esponente del partito storico, che Meloni ha cercato senza troppo successo di emarginare.

La presidente

Di fronte a questo conflitto, Meloni prova a tenere aperte tutte le strade. Fin dal suo discorso di insediamento ha provato a conciliare le due anime in cui è diviso il suo partito. «Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso», diceva, per poi rievocare gli anni di Piombo nelle modalità e con le parole chiave che sono proprie del vittimismo della destra radicale: un conflitto in cui «nel nome dell’antifascismo militante ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese».

Nei mesi successivi, Meloni ha mostrato le continue contraddizioni derivate dal suo tentativo di tenere i piedi in due staffe. Se quasi ad ogni uscita inopportuna del presidente del Senato La Russa ha fatto seguito una telefonata irritata di Meloni, quando un gruppo di giovani di Fratelli d’Italia che frequentano un centro sociale apertamente neofascista ha assalto un gruppo di studenti a Firenze, da Palazzo Chigi non è uscito un singolo commento. In occasione del 25 aprile, Meloni ha ordinato ai suoi ministri di partecipare in blocco alle celebrazioni, ma non ha potuto evitare che La Russa ne aprofittasse per le ennesime uscite provocatorie. 

Gli effetti immediati di queste continue fughe in avanti non vanno sopravvalutati. «Dal punto di vista elettorale, nel breve termine non cambiano nulla – dice il consulente politico – Ma nel lungo periodo sono come un movimento carsico. Goccia a goccia si accumulano nel percepito e determinano una graduale perdità di credibilità».

Difficilmente i sondaggi d Fratelli d’Italia miglioreranno da qui alle Europee. La storia recente insegna che una volta che iniziano a scendere, i consensi raramente risalgono. Il punto sarà quanto Meloni riuscirà a limitare l’emorragia. In un caso, avrà la forza di imporre una nuova stretta al partito e ai suoi nostalgici. Se i conservatori avranno un buon risultato anche in altri paesi, potrebbe persino riuscire nel suo sogno più ambizioso: contribuire a spostare l’asse europeo da una coalizione tra socialisti e popolari ad una tra popolari e conservatori. Sarebbe il coronamento di questi anni di trasformazione. Un cattivo risultato, un ulteriore isolamento in Europa e, come Munny/Eastwood, Meloni potrebbe trovare irresistibile oppure finire costretta dai suoi a un ritorno alla sua vecchia vita da imprevedibile pistolera sovranista.

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