Care lettrici, cari lettori

la settimana è stata fittissima di eventi e di polemiche. Il primo fatto di portata sovranazionale è la cattura del boss mafioso, Matteo Messina Denaro, che abbiamo seguito da vicino con molti contenuti e in particolare con la firma di Attilio Bolzoni, uno dei massimi esperti di mafia, che ha raccontato tutti i chiaroscuri di una vicenda che avrà certi sviluppi nelle prossime settimane.

La cattura ha avuto conseguenze politiche, in particolare sul ministro della Giustizia, Carlo Nordio, perchè il forte impatto mediatico ha aperto la questione irrisolta sui temi della giustizia dentro il governo Meloni. Anche a questo abbiamo dedicato un approfondimento, in particolare sul duro scambio di battute tra il ministro e il deputato del Movimento 5 Stelle ed ex procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho.

La settimana, però, è stata anche quella della fumata bianca sulla nomina dei consiglieri laici al Csm, che ha visto l’elemento positivo dell’elezione di 4 donne su 10 membri, senza precedenti nella storia del consiglio, ma anche il pasticcio politico di Fratelli d’Italia, che ha dovuto ritirare il suo candidato forte mentre si stava già votando.

Questi fatti hanno portato mediaticamente in secondo piano un fatto tragico: l’omicidio di un’avvocata romana di 35 anni da parte del suo ex compagno, avvenuta nella notte di venerdì scorso. Al fenomeno criminale del femminicidio Domani ha dedicato vari approfondimenti, due in particolare che sono ospitati anche da questa newsletter: i commenti dell’avvocata e membro del consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma, Irma Conti, e della magistrata di Roma, Paola di Nicola Travaglini, che offrono due prospettive dure ma realistiche di approfondimento.

Infine, il dibattito sulla riforma penale e il cortocircuito dei reati prima perseguibili d’ufficio e ora a querela ha portato a un dibattito: la settimana scorsa abbiamo ospitato l’intervista al magistrato antimafia Alfonso Sabella, che riteneva che gli errori nella riforma siano determinati da una scarsa conoscenza della prassi processuale da parte dei professori che l’hanno scritta. Questa settimana gli risponde l’ordinario di Diritto processuale penale all’università di Genova, Mitja Gialuz, che ha fatto parte della commissione penale Lattanzi per la riforma.

La nomina dei laici Csm

Si è conclusa l’elezione in parlamento dei 10 consiglieri laici del Csm. Il nuovo Csm si insedieranno nella seduta del 24 gennaio, in cui verrà eletto anche il nuovo vicepresidente. L’obiettivo è di avere il nuovo consiglio operativo in tempo per l’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, fissato per il 26 gennaio in Cassazione.

I nomi degli eletti, con i rispettivi voti ottenuti in parlamento e partito che li ha sostenuti, sono:

Roberto Romboli (Pd), ordinario di diritto costituzionale a Pisa, 531

Enrico Aimi (Forza Italia) ex senatore e avvocato, 517

Isabella Bertolini (FdI), avvocata, 521

Daniela Bianchini (FdI), avvocata, 519

Claudia Eccher (Lega), avvocata, 519

Rosanna Natoli (FdI), avvocata, 519

Fabio Pinelli (Lega), avvocato, 516

Michele Papa (M5S), professore di diritto penale, 506

Ernesto Carbone (Italia Viva, Azione), ex deputato e avvocato, 399

Il decimo membro è Felice Giuffrè (FdI), avvocato e costituzionalista, eletto con 420 voti nella seconda giornata di votazione del parlamento in seduta comune.

Per una ricostruzione puntuale di quello che è successo, qui l’articolo di Domani. Sinteticamente: il nome forte di FdI era quello dell’ex deputato e avvocato calabrese, Giuseppe Valentino, mentre erano già in corso le votazioni, però, è stata divulgata la notizia che Valentino è indagato in un procedimento penale a Reggio Calabria per fatti legati alla ‘ndrangheta.

Per questo, dopo gli attacchi delle opposizioni, Valentino ha deciso di fare un passo indietro e FdI ha cambiato candidato indicando Giuffrè, che però a quel punto non poteva più ottenere i tre quinti dei voti dei presenti, per superare il quorum.

Ora la partita aperta è quella per la vicepresidenza: fonti tra i togati indicano come candidati papabili il laico di minoranza, Romboli, o l’avvocato Pinelli. FdI vorrebbe puntare su Giuffrè, ma l’azzoppamento d’aula non è d’aiuto e ha messo in luce le difficoltà del partito nello scivoloso settore della giustizia.

In ogni caso la scelta dipende dalla maggioranza dei 20 togati e in particolare da Magistratura indipendente, il gruppo conservatore che ha 7 eletti. La scelta verrà guidata soprattutto da una valutazione personale dei singoli laici e in particolare il delicato equilibrio per il futuro Csm, che dovrà avere un vicepresidente capace di tenere testa al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha anticipato in particolare la volontà di separare le carriere. Per questo non è impensabile che si elegga un lacio di minoranza, come è già stato per l’uscente David Ermini. 

I primi coa hanno votato

Sono in corso le votazioni per eleggere i nuovi consigli degli ordini degli avvocati. Gli ultimi fori voteranno nella prima settimana di febbraio (Milano vota il 7-8-9 febbraio), mentre questa settimana si è votato per eleggere alcuni tra i coa più grandi e sono già pubblici i risultati.
Roma:
Alessandro Graziani, Paolo Nesta, Irma Conti, Massimiliano Cesali, Maria Agnino, Giorgia Celletti, Marco Lepri, Mauro Vaglio, Donatella Cerè, Angelica Addessi, Enrico Lubrano, Roberto Nicodemi, Lucilla Anastasio, Pietro Di Tosto, Antonio, Caifa, Alessia Alesii, Vincenzo Comi, Grazia Maria Gentile, Carla Canale, Cristina Tamburro, Paolo Voltaggio, Stefano Galeani, Cristiana Arditi di Castelvetere, Silvia Cappelli, Donatella Carletti.
Bologna: link al sito

L’equo compenso

Torna in aula la norma sull’equo compenso, che non era stata approvata per un soffio nella scorsa legislatura.

Il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha detto che  spera che «il testo normativo sull'equo compenso venga approvato in Aula in tempi brevi per salvarlo dalle tante insidie delle volubilità parlamentari». Esistono perplessità sulle situazioni non legate alle professioni ordinistiche e questo sta creando qualche intoppo.

Un disegno di legge è stato presentato sia da Fratelli d’Italia con un particolare interessamento della premier che dalla Lega e anche dal terzo polo. In settimana la commissione Giustizia della Camera ha licenziato il testo a prima firma Meloni-Morrone ed è stato dato mandato unanime ai relatori Carolina Varchi di FdI e Ingrid Bisa (Lega) per riferire in aula la prossima settimana.

I processi “cancellati” in Sicilia

In Italia la giuria popolare nei processi penali esiste solo per reati particolarmente gravi come i fatti di sangue. Per un assurdo cortocircuito nell’interpretazione della legge - la numero 287 del 1951 che ha introdotto la figura dei giudici popolari – in Sicilia sono già saltati due processi di condanna e questo rischia di avvenire anche in un altro caso, se il ministero della Giustizia non si attiverà con una interpretazione autentica della legge.

I casi, che hanno visto l’annullamento delle sentenze di condanna da parte delle Corti d’assise d’appello di Palermo e Messina, riguardano un caso di contagio volontario da Hiv e uno di omicidi correlati a fatti di mafia, sul presupposto che due giudici popolari della corte d’assise avevano superato i 65 anni al momento della pronuncia della sentenza.

E rischia di accadere di nuovo se il ministero non interverrà, per un caso di femminicidio in decisione presso la corte d’assise di Messina.

Le corti d’assise d’appello siciliane, infatti, hanno accolto il ricorso dei difensori degli imputati secondo cui il requisito di rimanere entro i 65 anni di età non valga solo per il momento dell’assunzione dell’incarico, ma che debba perdurare per tutta la durata del processo e così non era per i due casi di sentenze già annullate.

Per questo i senatori del gruppo Autonomie, la siciliana Dafne Musolino e gli altoatesini Julia Unterberger e Luigi Spagnolli, hanno promosso una interrogazione al ministro della Giustizia, chiedendo una interpretazione autentica della norma.

Qui Milano: gli strascichi del processo Eni-Nigeria

Ancora strascichi sul caso Eni – Nigeria, il processo per corruzione internazionale a carico dell’azienda petrolifera e conclusosi con l’assoluzione in primo grado degli imputati. I due pm che sostenevano l’accusa, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono stati rinviati a giudizio a Brescia con l’accusa di rifiuto d’atti d’ufficio.

Il gup di Brescia, Christian Colombo, che ha accolto la richiesta dei pm Carlo Milanesi e Donato Greco con il procuratore capo Francesco Prete. Si valuterà quindi in dibattimento l’operato dei due pm milanesi, che sono accusati di aver volontariamente non depositato prove favorevoli alle difese nel processo. Due le prove non depositate: i documenti in cui risulta una falsificazione di atti prodotti in giudizio (chat di whatsapp) dal coimputato e teste dell'accusa nel processo Eni-Nigeria, Vincenzo Armanna, che mostravano una sua possibile corruzione in atti giudiziari di un testimone; e la videoregistrazione di un incontro del 2014 con l'avvocato Piero Amara, nel quale Armanna parlava di propositi ritorsivi nei confronti dei vertici dell'Eni.

I due magistrati hanno sempre sostenuto di aver agito in modo corretto e nell'alveo delle loro prerogative sulla discrezionalità dell'attività di udienza. Il mancato deposito - hanno affermato nei rispettivi interrogatori davanti al giudice dello scorso 2 novembre - era stata una scelta ponderata e comunicata, attraverso una relazione, all'allora procuratore della Repubblica Francesco Greco e all'aggiunto Laura Pedio.

Il caso è molto complicato e si annoda con un altro fascicolo parallelo dentro cui queste altre prove sono state rinvenute, quello del cosiddetto “falso complotto Eni”, di cui era titolare il pm Paolo Storari, che poi si è trovato contrapposto ai suoi colleghi nella gestione dei verbali di Amara sul caso Loggia Ungheria.

Insomma, gli strascichi dei fascicoli Eni, che hanno terremotato la procura di Milano negli ultimi due anni, non sono ancora conclusi.

Qui Roma: il processo Contrafatto colpisce due togati uscenti

Parallelamente alle carte milanesi, la vicenda dei verbali di Amara tocca ancora da vicino il Csm uscente.

I verbali, trafugati dalla procura di Milano, erano finiti a Roma e poi inviati in plico anonimo alle redazioni di alcuni giornali e al togato Nino Di Matteo. Per questa iniziativa è stata processata la segretaria dell’ex togato, Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto, accusata di essere “il corvo” e poi assolta per non aver commesso il fatto dal tribunale di Roma dal reato di calunnia.

Proprio nell’alveo di quel processo, il gup ha redatto una sentenza di proscioglimento per Contrafatto in cui ha scritto che «All'interno del Csm ci sono stati imbarazzanti silenzi ed inescusabili omissioni, che non possono trovare giustificazione alcuna per chi ha avuto in mano quei verbali, li ha letti e poi distrutti quando scoppierà il caso Contrafatto o per chi, dopo averli letti, si e' finanche spinto a fornire al consigliere Davigo valutazioni sulla credibilità di Amara, sicuramente al di fuori dei compiti e dei doveri istituzionali che l'alto incarico di componente del Csm ricoperto imponeva».

Nella sentenza, si legge anche che alcuni consiglieri del Csm si sarebbero resi responsabili di «potenziali fattispecie di omessa denuncia». Per questo, il gup ha rimesso gli atti alla procura di Roma «per ogni opportuna valutazione sulla configurabilità, nei confronti del consigliere Giuseppe Cascini, dell'ipotesi di reato di cui all'art. 361 c.p (omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale ndr) e del consigliere Giuseppe Marra, delle ipotesi di reato di cui agli artt. 351 (violazione della pubblica custodia di cose ndr) e 361 c.p, con riferimento a fatti accaduti in Roma».

Correttivi alla riforma penale

Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha portato in Consiglio dei ministri un disegno di legge governativo volto a intervenire in modo chirurgico sui potenziali cortocircuiti prodotti con l’entrata in vigore della riforma penale del governo Draghi.
Il ddl contiene infatti la previsione che tutti i reati per cui è ipotizzata l’aggravante mafiosa o di terrorismo siano procedibili d’ufficio: la lista è molto più lunga rispetto a quella dei reati per cui la riforma Cartabia ha modificato la procedibilità e contiene una sessantina di articoli. Con questa modifica, dunque, si va incontro e anche oltre le critiche dei magistrati dei giorni scorsi, che avevano criticato la riforma che rendeva procedibili solo a querela reati come le lesioni personali, il sequestro di persona e il furto aggravato senza tenere in conto la variabile dell’aggravante di mafia e terrorismo.
Inoltre, il ddl contiene anche l’allargamento della finestra temporale per sporgere querela in caso di reati in cui è previsto l’arresto in flagranza, come nel caso di furto aggravato. Anche questo cortocircuito era stato evidenziato nei giorni scorsi: nel caso di furti aggravati come per esempio il furto d’auto, l’arresto in flagranza non era possibile se prima non si fosse rintracciato il proprietario dell’auto rubata.
Il ddl prevede che l’arresto in flagranza avvenga anche in caso di procedibilità a querela, con 48 ore di tempo per la parte offesa di sporgerla. Si tratta di interventi “chirurgici” è la posizione di via Arenula, che vengono previsti con la formula del ddl e non del decreto legge per lasciare spazio di intervento anche al parlamento.

© Riproduzione riservata