Abbiamo vissuto gli ultimi settantasette anni in un sogno di mezza estate, come direbbe Shakespeare. Era il sogno della pace. Abbiamo creduto che, in Europa, non avremmo più visto la guerra. Certo, in precedenza c’era stato il conflitto nella ex Jugoslavia, ma l’avevamo classificato tra le guerre civili, e quindi tra le eccezioni. Del resto, la guerra nella ex Jugoslavia, per l’Europa, aveva avuto un lieto fine dato che due delle nazioni che si erano rese indipendenti, la Croazia e la Slovenia, sono diventate membri dell’Unione europea.

Ora, con la guerra in Ucraina, ci siamo svegliati dal sogno per ritrovarci in un incubo. Di solito, dopo aver avuto un incubo ci svegliamo spaventati e di pessimo umore. Nel caso dell’Ucraina, l’incubo è arrivato al risveglio dopo un bel sogno durato settantasette anni.

Cominciamo, quindi, con due domande essenziali che riguardano la guerra in Ucraina, ossia l’incubo.

Quella che si combatte in Ucraina è una guerra ingiusta, che sta distruggendo un paese con l’unico obiettivo da parte della Russia di sfoggiare la sua potenza? Ma certo, specialmente da quando è caduto anche l’ultimo pretesto dei russi, ossia il loro rifiuto all’ingresso dell’Ucraina nella Nato.

La Russia distrugge, una dopo l’altra, le città ucraine e uccide a sangue freddo la popolazione inerme, bombarda le abitazioni dei civili e li spinge alla fuga e all’esilio. E non vi è alcun dubbio che tutto questo venga compiuto insieme a una serie di operazioni militari che rappresentano veri e propri crimini di guerra.

Ecco però che irrompe una domanda chiave. Ma questo è davvero il primo incubo che viviamo dopo la Seconda guerra mondiale e Putin è davvero il primo a tradurlo in realtà?

Facciamo qualche esempio. Che cosa è stata la guerra nel Vietnam? A prima vista uno scontro tra Vietnam del nord e Vietnam del sud. Un intervento degli Usa per eliminare il Vietnam del nord, che era comunista.

Che cosa è stata la guerra in Iraq del 2003? Un’aggressione degli americani e degli inglesi per rovesciare il regime di Saddam Hussein, che si è trasformata in un conflitto fratricida tra sciiti e sunniti che continua a tutt’oggi e ha spinto una gran parte dei sunniti iracheni ad allearsi con l’Isis, mentre ha trasformato l’Iraq in un satellite dell’Iran.

E l’ultimo anello della catena è l’Afghanistan. Gli americani, insieme ai loro alleati, hanno abbandonato gli sventurati afghani alla mercé dei talebani e se ne sono tornati a casa.

Un prodotto

In tutti questi interventi, l’argomento costante dell’Occidente è stato che interveniva per ristabilire la democrazia. E così, la democrazia si è trasformata in un prodotto da esportazione, come le automobili, i dispositivi elettronici, il gas naturale.

Solo che la democrazia non è un prodotto esportabile. L’unica strada che porta dalla democrazia in uno stato passa dalle lotte intraprese dai suoi abitanti. E un’insurrezione, di solito, non è sufficiente per raggiungere l’obiettivo. L’esempio più recente è stata la rivoluzione di piazza Tahrir nel 2011. Allora, tutti abbiamo applaudito entusiasti, ma ci siamo dimenticati quel che dice il proverbio: una rondine non fa primavera. Oggi, constatiamo che tutti i popoli che sono insorti in quel periodo sono presto tornati al vecchio e ben noto status quo.

Invece di diventare nazioni in cui si esportava la democrazia, i paesi che ho citato si sono ridotti, insieme alla Siria, a esportatori di profughi.

Ma veniamo ora a Putin e all’aggressione all’Ucraina. L’unica cosa che non si può dire di Putin è che abbia invaso l’Ucraina per importarvi la democrazia. L’Ucraina era un paese democratico prima dell’aggressione russa e continuerà a esserlo anche dopo. Invece, la Russia continua ad avere un regime dittatoriale anche dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica.

Tutto questo è una scusa del peccatore. La verità è che ogni nazione che si sente grande e forte attacca quella più piccola per imporle, con le armi, le sue condizioni e le sue leggi.

Pretesto

Tutto questo, Putin lo sa bene. Ed ecco perché si è appellato a due argomentazioni: una delle quali è un’impostura e l’altra un pretesto.

L’impostura è che l’Ucraina, come nazione, non esisteva ed è stata concepita a partire da un’idea di Lenin. Quel che ho chiamato “impostura”, Putin lo ha trasformato in argomento: sin dal tempo dell’Impero zarista, l’Ucraina faceva parte della Russia, quindi, gli ucraini sono russi e devono essere inglobati nella Russia.

Il secondo argomento pretestuoso è la denazificazione dell’Ucraina. E con questo, Putin intende riferirsi al Reggimento Azov. Non ho alcuna simpatia per il reggimento neonazista Azov, ma il suo scioglimento è questione del popolo ucraino, del governo e della giustizia penale ucraini, e non può certo essere un pretesto per invadere una nazione straniera.

E questo lo sostiene uno scrittore che per molti anni ha vissuto accanto, in Grecia e anche in Parlamento, alle formazioni neonaziste di Alba Dorata. Oggi Alba Dorata è stata sciolta e i suoi dirigenti sono in prigione. E non è il risultato dell’irruzione di qualche potenza straniera, ma una risoluzione dei tribunali greci. Questa è la strada legale che si offre a ogni stato democratico, anche se si tratta di un processo che Vladimir Putin non riesce a comprendere.

Ma adesso, lasciamo Putin e passiamo dalla parte degli Stati Uniti e dell’Europa. La storia e la politica ci insegnano che il modo più sicuro per risolvere i contenziosi tra gli stati è il tavolo delle trattative. L’ha ripetuto di recente un politico molto esperto e della vecchia scuola, Henry Kissinger, che oggi ha novantanove anni.

La diplomazia serve ancora

Nella guerra Russia-Ucraina ci sono stati, all’inizio, alcuni incontri tra le due parti in conflitto, che però hanno avuto vita breve e non hanno portato a nulla.

A mio parere, qui siamo di fronte a un problema serio il cui significato è stato sottovalutato: le sanzioni contro la Russia sono state imposte senza che, prima, venisse fatto qualche tentativo concreto per trovare una soluzione a tavolino, ossia attraverso un negoziato. L’unico che, sin dall’inizio, ha insistito per un canale aperto alla trattativa è stato Emmanuel Macron.

Se i negoziati fossero andati avanti e alla fine fossero falliti per colpa della Russia, allora certamente sarebbe stato comprensibile far seguire le sanzioni. Ma gli americani e gli europei hanno davvero creduto che Putin avrebbe chiesto un compromesso per evitare le sanzioni? In questo caso si sarebbe trovato, sul fronte interno, di fronte l’accusa di essersi piegato alle sanzioni e questo, per un capo di stato come Putin, sarebbe stato del tutto inaccettabile.

Il problema è che gli alleati dell’Ucraina non sono partiti con l’intenzione di trovare una soluzione, ma solo con l’idea di infliggere una punizione a Putin. Oggi ne vediamo le conseguenze e l’amara verità è che le sanzioni non hanno fermato Putin. L’unica cosa che sono riuscite a fare è chiudere il canale del negoziato.

Dalla parte dei cittadini

Le sanzioni hanno un’uscita e un ingresso. L’uscita guarda verso l’avversario e alle conseguenze, per lo più economiche, che gli causano. L’ingresso, però, è rivolto dalla parte dei cittadini delle nazioni che impongono le sanzioni, che a loro volta sono chiamati a subire delle conseguenze economiche.

Le sanzioni che sono state imposte alla Russia hanno ricadute dolorose se non catastrofiche sulla vita dei cittadini dell’Unione europea. In Grecia, ma anche in molti altri paesi, le persone, ora, non sono in grado di permettersi altro che ciò che è indispensabile per la sopravvivenza e gli spostamenti. Le conseguenze delle sanzioni, collegate alle conseguenze della guerra, è una specie di colpo di grazia che arriva dopo le conseguenze della pandemia.

E qui si propone una questione di ordine etico per i politici dell’Unione europea.

Le sanzioni contro la Russia non possono essere imposte senza calcolarne le ricadute che probabilmente dovranno sostenere i cittadini dell’Unione europea, tanto più che viene esclusa ogni prospettiva di soluzioni attraverso i negoziati.

I primi cenni di reazione da parte dei cittadini stanno già arrivando, anche se non sono certo che diamo loro la giusta importanza e neppure che si soffermiamo a rifletterci.

Il primo messaggio ci è arrivato dalla Francia. Non si tratta solo della perdita della maggioranza assoluta da parte del partito di Macron, L’Ensemble, al Parlamento francese, ma del contestuale aumento dei seggi conquistati dal partito di estrema destra di Marine Le Pen.

Il secondo campanello d’allarme è la maggioranza assoluta che il partito popolare di Spagna ha conquistato nelle elezioni amministrative in Andalusia, una zona in cui quello socialdemocratico è stato tradizionalmente il primo partito.

In entrambi i casi sono stati puniti i partiti al governo che hanno votato a favore delle sanzioni. E temo davvero che questi due casi siano soltanto un campanello d’allarme.

Ma davvero i politici europei credono che potranno scaricare le conseguenze della guerra in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia sulle spalle dei loro concittadini e che questi continueranno ad applaudirli e a votarli? Il peso maggiore delle conseguenze delle sanzioni cade sulle spalle delle classi medie e basse, e questo non è solo un fenomeno molto ingiusto, ma anche uno sviluppo pericoloso.

Dimenticare

Ma torniamo al sogno lungo settantasette anni durante il quale abbiamo creduto che non avremmo più vissuto una guerra in Europa. Ci siamo svegliati dentro un incubo, ma non è questo l’unico problema, perché ce n’è un altro: la perdita della memoria.

Gli uomini politici europei, oggi, o non sanno o non ricordano come si debba affrontare una situazione critica. Hanno dimenticato anche il periodo della guerra fredda. La guerra “fredda” non è diventata “calda”, perché da entrambe le parti, il blocco dei paesi occidentali e quello dell’Unione sovietica, si sapeva che, nel momento cruciale, si sarebbe dovuta trovare, tramite un negoziato, una via d’uscita condivisa. Ed è esattamente questo che ci ha ricordato, indirettamente, Henry Kissinger durante il suo discorso.

I politici di oggi sono convinti che l’unica soluzione sia la dimostrazione di forza. Ma commettono un grave errore. L’unica soluzione è una transazione, un accordo comune, di compromesso e la strada della trattativa. Le sanzioni sono solo l’estrema ratio una volta che i tentativi precedenti siano falliti.

Traduzione di Andrea Di Gregorio

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