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Paola Di Nicola Travaglini: «Il racconto dei femminicidi in tribunale ha bisogno di nuovi linguaggi»

«Vi leggo tre righe di una sentenza in materia di femminicidio: “Non può escludersi che l'azione violenta posta in essere sia stata animata da un dolo di impeto, da un'esplosione di rabbia momentanea, incompatibile con la premeditazione del fatto reato”. Quindi abbiamo “rabbia momentanea”, “impeto” e “non può escludersi che”. Questo racconto dei femminicidi, che solitamente si rafforza con altri termini come “gelosia”, “frustrazione di un uomo abbandonato” eccetera. Tutto questo racconta i femminicidi come delitto di potere per eccellenza, come i delitti di mafia. Un delitto di mafia viene commesso per sancire la presenza del clan in un contesto territoriale. Il femminicidio lo dovete leggere con la stessa modalità, altrimenti siamo fuori dalla corretta lettura del fenomeno criminale».

«Le parole impeto, gelosia, frustrazioni, disagi psichiatrici, ci portano fuori target e fuori linea. Tutto questo appartiene però alla nostra cultura, appartiene al nostro modo di leggere i femminicidi al bar, a casa, tra i colleghi di lavoro. Abbiamo bisogno che queste parole non entrino più nelle nostre sentenze e affinché non entrino più abbiamo bisogno di nuovi linguaggi. Il linguaggio non si inventa, il linguaggio richiede precisione, tassatività, oculatezza, determinazione. E questa nuova fattispecie di femminicidio consentirà, attraverso parole come “odio”, “discriminazione”, “prevaricazione”, “possesso”, “dominio”, “controllo”… consentirà di evitare la lettura delle tre righe che prima vi ho inferto».

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